Finirai per trovarla la via, se prima hai il coraggio di perderti... T. Terzani

Ulaanbaatar. Ritorno all'Occidente.

Ripartiamo, con calma, un po’ delusi di non aver trovato una guida per andare al parco nazionale.

In moto sarebbero altri 800km andata e ritorno, tutti in fuoristrada, significherebbe 3-4 giorni di guida; rischioso, siamo già molto stanchi.

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Mancano pochi km ad Arvaikheer, dove i miei amici torinesi sanno che c’è una missione cattolica presieduta da Padre Marengo.

Appena arrivati, sono le 13, ci fermiamo per trovare un posticino per mangiare le solite aringhe, intanto chiediamo ad un signore se conoscesse il Padre.

Una telefonata, due parole in inglese, ed il signore ci accompagna con la sua jeep fino alla missione…incredibile, trovata al primo colpo!

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La chiesa è realizzata in una gher, per dare meno nell’occhio.

Le famiglie si avvicinano alla missione perché qui offrono docce gratuite 2 volte alla settimana, asilo gratuito ed una serie di servizi che in città non si sognano neanche.

Una presenza silenziosa ed importante, non invasiva a quanto ci è parso.

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Ma sono le 13 passate, e la fame aumenta…ci chiedono se abbiamo mangiato..no…neanche a farlo apposta siamo arrivati qui per pranzo e senza batter ciglio le due suore ci preparano delle ottime farfalle al pesto, con frittata, formaggio, pane e dolce finale!!!

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Dopo una chiacchierata sulla cultura mongola e su come la missione sia nata e cresciuta, ci spostiamo a visitare gli altri locali.

I mongoli usano questo ricovero per fare tutto quello che non è permesso a casa loro.

Facebook spopola anche qui.

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Nell’asilo stanno circa 20 bambini, che il primo mese di frequentazione di solito ingrassano di 3-4kg. Tutta salute!

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Questo qua sotto è un bambino, ha i capelli lunghi perché ancora non ha 3 anni, età alla quale gli verranno tagliati a simbolo del passaggio dell’età più critica.

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Ci salutiamo tra mille sorrisi e promesse, è stato bello soggiornare qui seppur per poco.

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Sulla strada per Kharkhorin, la vecchia capitale, non è raro vedere gher e bambini che giocano vicino alla strada.

Due di loro stavano piangendo per non so cosa.

Li chiamo a me, si avvicinano, gli regalo alcuni adesivi, torna il sorriso e si mettono in posa per una foto.

Come soldatini.

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Proseguiamo, le tracce nella valle si moltiplicano.

A volte diventano 10, forse 15, hai l’imbarazzo della scelta.

L’attenzione però va sempre mantenuta alta, sia per la presenza di sabbia a tratti che fa imbarcare la moto, sia per i guidatori mongoli, che non si fanno scrupoli a passarti radente pur di proseguire il loro cammino.

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Incrociamo un tempio buddista in stile tibetano.

Quasi abbandonato.

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Dopo la breve visita ci fermiamo a pochi km dalla città, in un hotel con campo gher, contrattiamo il prezzo ma è veramente difficile spuntarla, otteniamo 10.000 Tugrit a testa per dormire e doccia.

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 Mangiamo nella gavetta una calda minestra di pasta e fagioli con secondo di tonno e piselli.

Niente male.

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La mattina ci svegliamo con la pioggia ed il freddo.

Imbottisco la tuta Moto One, indosso l’antipioggia.

Tutti bardati partiamo alla volta dei templi della vecchia capitale dei tempi di Gengis Khan, il sanguinario imperatore mongolo vissuto nel 1200.

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Un’ora è più che sufficiente per osservarne la storia.

Rimontiamo in sella.

Qualche sprazzo di sole apre il cielo.

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E’ ora di pranzo, e tante sono adesso le occasioni per mangiare, ci stiamo riavvicinando alla “civiltà” e le strade sono costellate di locali dove si fa cucina locale.

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La preparazione delle vivande non è proprio asettica, diciamo..

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Ma l’aspetto finale ed il gusto sono davvero ottimi!

Non so perché ma quando viaggio ho sempre una fame bestiale e quando vedo questi piatti li divoro.

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Proseguiamo, la strada è asfaltata, ma è peggio delle piste.

Delle buche che potrebbero inghiottire un’auto si aprono lacerando la superficie scura dell’asfalto, ogni tanto quest’ultimo lascia posto a tratti sterrati con sassi grossi, le vibrazioni sono tremende, ed il pericolo aumenta quando l’asfalto si fa nuovamente liscio ed acceleriamo, ignorando che la prossima buca è lì dietro l’angolo pronta a far saltare i paraolii di Alex o a farci ondeggiare paurosamente.

Le auto non si fanno scrupoli a frenare improvvisamente o spostarsi sull’altra corsia per evitare le asperità, costituendo un gran rischio per noi.

Arriviamo finalmente ad Ulaanbaatar.

La strada è migliorata negli ultimi km, ma il traffico è veramente caotico.

Ci manteniamo in fila ed uniti, in gruppo, mentre attorno è l’anarchia, clacson, sorpassi azzardati, cambiamenti di traiettoria improvvisi: bisogna stare in tensione ogni secondo per evitare il peggio.

Arriviamo al Golden Gobi. Pieno! Ripieghiamo sul Gana’s Guesthouse, in mezzo al campo gher, un posticino non proprio consigliabile, ma hanno una specie di cortile interno dove ricoveriamo le moto.

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Le stanze non sono il top a pulizia ma i letti sono comodi e la doccia è calda.

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La sera siamo stanchi e non abbiamo voglia di cucinare, ci permettiamo un ristorante coreano per riempire le nostre pance, e godiamo quando ci viene servito questo bendiddio.

Tutto molto speziato, ma ottimo. 8€, neanche.

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Il giorno seguente facciamo un breve tour per UB, la mattinata parte per acquisto dei souvenir da parte degli amici torinesi, io skippo, odio comprare souvenir.

UB è una città moderna, all’occidentale, grandi palazzi e nuove costruzioni si fanno spazio dove una volta c’erano delle gher e campi nomadi.

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E’ il compleanno di Damiano e festeggiamo con un pranzo mongolo.

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Qui siamo proprio nel centro, niente di speciale, una grande piazza, un grande palazzo per il governo, la statua di Sukhbaatar al centro, eroe mongolo che li ha resi indipendenti dalla Cina, ed all’interno dell’ingresso, la rappresentazione del grasso Gengis Khan.DSC01478
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Vicino alla guesthouse c’è anche un tempio, purtroppo è chiuso ma anche da fuori è molto pittoresco.

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Per cena facciamo di nuovo festa, prepariamo un chilo e mezzo di spaghetti alla carbonara, ma mancano sale, formaggio ed abbiamo pure poca pancetta…i locali apprezzano ma gli confidiamo che una carbonara così fatta in Italia può significare la galera!

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Di nuovo mattina.

Ci separiamo, Guglielmo, Damiano ed Alex mi salutano puntando verso la Russia, ammetto che mi dispiace, dopo aver vissuto una tale esperienza insieme.

Ma la mia strada è ancora verso Est.

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Il deserto a 2000 metri.

Il sole splende alto, ma è freddo una volta fuori dalle coperte.

I residenti nella Gher escono fuori vestiti all’occidentale, e sul loro fuoristrada Toyota prendono la via del centro, mentre il ragazzetto rimane a casa.

Gli regalo qualche adesivo e chiedo una foto. Come un soldatino si mette in posa, come d’altronde fanno tutti i mongoli quando punti la macchina verso di loro.

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“Good boy!” mi fa, mentre vado via.

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Oggi sarà una giornata dura, tutto deserto, piatto e senza variazione di paesaggio, ma non lo sappiamo, così partiamo con grandi aspettative.

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Lo spettacolo è desolante.

Guidare qui è stancante e poco stimolante, a volte.

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La polvere è ormai già ovunque, non ci faccio più caso, mi abituo a questo pensando che fa più “wild”.

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Ogni tanto si trovano dei piccoli (1-2m di diametro) “santuari” dove vengono lasciate offerte buddiste di cibo e chincaglierie varie.

Spesso l’odore qui è forte, il cibo si decompone e puzza.

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La strada non è semplice, in più l’aria secca e la polvere ci mettono del suo per aumentare la difficoltà.

La gola è secca, il naso si riempe di pulviscolo e la mucosa lacrima sangue.

Le labbra si spaccano, le mani rattrappiscono dentro i guanti.

Terribile.

Questo cammello deve essere deceduto proprio in seguito a tale secchezza.

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Dopo circa 350km di nulla più assoluto decidiamo di fermarci.

Damiano ha avuto nuovamente problemi con la borsa e ci fermiamo per ripararla vicino ad una gher in mezzo alla valle.

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Dormiamo praticamente in mezzo a m***a di pecora e sabbia.

Probabilmente qualcosa di questi elementi è pure finito nella gavetta mentre cucinavamo.

Per i prossimi 10 anni non ci ammaleremo, presumo.

Ci godiamo l’ultima luce e dopo una cena a base di minestra liofilizzata (buonissima stasera) ci corichiamo. Metto i tappi, i miei vicini di tenda spesso sono rumorosi…eh eh..

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La mattina trovo una sorpresa accanto alla tenda. Al palo è legata una pecora.

Riesco già ad immaginare la sua fine.

Smonto tutto sperando che non mi punti per darmi una capocciata.

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Proseguiamo delusi dal percorso del giorno precedente, pensando che anche oggi sarà lo stesso.

Non è così!

Per la prima volte vediamo un animale che solitamente si può osservare solo allo zoo…ha due gobbe, vedo bene?

Si, è proprio un cammello, anzi, sono tanti cammelli, una specie di mandria!

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Anche loro pascolano liberamente, ma sono controllati, hanno tutti un fiocco all’orecchio.

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Di tanto in tanto si trovano degli aggregati che fanno da crocevia tra una strada e l’altra.

E qui si trovano caratteristici personaggi.

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Qua è fantastico. Adoro il silenzio della Mongolia.

E’ una sensazione di pace mai provata prima.

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Ci fermiamo in uno spiazzo per mangiare, dopo aver fatto spesa ad Altaj.

Sento un odore particolare, diciamo così.

Accanto a dove mangiamo sorge una sorta di ricovero per animali, ma mi avvicino e in terra vedo tante zolle, come avessero arato all’interno.

No, non sono zolle di terra.

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E’ merda.

Qui la seccano per poi bruciarla.

In Mongolia non esistono alberi, per via del deserto e per via del forte vento, perciò si affidano a qualsiasi fonte combustibile si possa trovare.

Persino plastica, polistirolo…diossina pura.

Trovarsi vicino al camino di una gher è un’esperienza da evitare assolutamente, terribile!DSC01210

Qui oltre ai combustibili fantasiosi si inventano anche murature fantasiose.

Ecco che si può osservare l’opus bottigliatum.

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Di nuovo cammelli. Quasi ci si fa l’abitudine.

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Lungo la strada le motorette sfrecciano e si sbracciano per salutare.

Addirittura si fermano se tu ti fermi e ti si avvicinano curiosi.

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Quando la giornata sembra andare per il meglio, ecco che accade il fattaccio.

Disfatta.

Damiano in mattinata era caduto di nuovo, con ulteriori danni alla moto. Anche la borsa destra era andata, ma sembrava potesse proseguire.

No.

La pista ha deciso per lui che non poteva proseguire.

Dopo aver più volte perso la borsa, che non stava più in sede, l’amarissima decisione.

Continuare così avrebbe significato prendersi troppi rischi e rallentare il gruppo a tempo indefinito.

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L’immagine è emblematica.

Il sacco impermeabile ha già preso il suo posto sulla moto, con all’interno tutto il contenuto delle borse rigide.

Addio.

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Facciamo gli ultimi 80km verso il prossimo paese.

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Appena arrivati siamo l’attrazione per chiunque, come sempre.

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Chiediamo dove dormire.

Una chiamata, niente inglese, ma bastano pochi gesti per capire che qualcuno sta arrivando.

E’ una famiglia mongola; ci guidano verso la loro abitazione, dormiremo nella gher accanto al loro manufatto in legno.

E’ la nostra prima notte in gher, siamo eccitati, e dopo aver tirato un po’ sul prezzo otteniamo di dormire e mangiare per 10.000 Tugrit, 4€ per l’esattezza.

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La signora ci porta un pasto “pulito” e gustosissimo.

Riso con ketchup, carne di pecora a verdure al forno, davvero squisito.

E l’immancabile chay.

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Tutto ottimo…Morfeo ci coglie d’improvviso, e così cadiamo beati in un sonno profondo, dopo giornate intense come quelle passate nel deserto mongolo non è facile rimanere attivi oltre le 22.

La mattina il cielo è terso e siamo tutti di buonumore.

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Ogni tanto, nel mezzo del nulla si trovano dei piccoli aggregati più o meno turistici dove delle gher preparano piatti caldi ed offrono posti letto, spesso c’è anche un market nei pressi.

Come ci fermiamo, dalle tipiche tende nomadiche mongole si allungano all’infuori tante facce di bambini e non, che poi prendono coraggio e si avvicinano.

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Alcuni sono inizialmente timorosi, ma poi quando li inviti a sedersi sui nostri bolidi non possono resistere.

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Ed una manciata di adesivi è sempre sufficiente per farli contenti.

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Ci fermiamo a pranzo. Sardine e pane.

Non ne possiamo più, questo è il nostro rancio di mezzogiorno, sardine sempre, o carne in scatola, quasi meglio la pecora.

Poco importa. Siamo fermi al centro di un piccolo parco pubblico in un paesello e ci stupiamo vedendo bambini che ancora giocano all’aperto rincorrendosi senza gli occhi puntati su un display.

E’ una gioia vederli, esprimono vita.

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Le facce sono già più diverse, ci stiamo avvicinando al sud e quindi alla Cina.

Gli zigomi si appuntiscono e sporgono di più, il naso e la faccia si appiattiscono.

Ripartiamo. Cammelli, stavolta più in carne.

Non è raro vederne quasi senza gobbe, l’acqua non abbonda certo qui e loro ne risentono, così come i cavalli che a volte sono scheletrici.

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La strada oggi si fa più verde e sembra una di quelle che possiamo osservare anche nelle nostre campagne, erba ai lati ed al centro.

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Ancora animali, è sorprendente la facilità con cui incontriamo mandrie di cavalli o pecore, in grande numero, pascolare o stando semplicemente con le gambe a mollo nell’unica pozza nel raggio di km e km.

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Bayankhongor. Prima di ogni città c’è sempre un tempio in alto su un colle da cui si osserva la valle.

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Tornando alla moto continuo a notare il problema della Mongolia, persistente e drammatico a tratti.

La sporcizia è ovunque.

Nel deserto, perfino in mezzo al niente, si trovano bottiglie e confezioni in plastica.

Non c’è cultura del riciclo, la spazzatura è ammucchiata un po’ ovunque, a cielo aperto si aprono puzzolenti discariche.

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La città sembra disordinata, a tratti vediamo nuove costruzioni in cemento, realizzate senza molta logica, con pilastri non allineati, senza ponteggi e con pessimo gusto estetico; dall’altra parte notiamo i quartieri più poveri con le gher recintate da staccionate in legno.

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Non è raro osservare bambini vendere per strada.

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Stasera ci vogliamo godere un po’ di buon cibo mongolo dopo le tante sardine.

Scegliamo un ristorante tra i meno sporchi, ordiniamo scegliendo tra i piatti che vediamo servire ad altri clienti e prendiamo così una minestra di carne di pecora, degli involtini fritti con carne di manzo ed un secondo di carne, riso e verdure.

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Risiediamo per oggi in albergo.

Per ottenere una stanza abbiamo discusso quasi mezzora, non riusciamo a capire se i mongoli facciano finta di non capire o non vogliano proprio.

Quando chiediamo qualcosa cominciano a guardare nel vuoto, parlano tra di sé e poi ci ignorano, come se non avessimo chiesto niente.

Alla fine riusciamo ad ottenere di dormire in una stanza quadrupla per poco più di 4€ per uno, con doccia calda.

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Mongolia. Storie di un altro mondo.

Saluto Liza, ottima host CS, direi forse la mia preferita per gentilezza, nonostante non parlasse bene inglese.

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La strada da Novosibirsk in poi sembra buona, ma la pioggia mi coglie di nuovo, regalandomi la solita sensazione di depressione: odio la pioggia quando viaggio, non mi permette di fare i km che voglio, niente foto o quasi, umido addosso..

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Lascio l’Oblast di Novosibirsk ed entro nel Krai di Altai (Oblast è il nome delle regioni interne, Krai quello delle regioni di confine).

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Devo ripiegare sulla solita gastinitza, soliti 1200 rubli. E’ pulita ed accogliente, ma l’indomani forse sarà ancora brutto tempo, chissà, intanto i pensieri non sono dei migliori…

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La mattina mi sveglio di buona lena, alle 6.30, per percorrere tutti i 550km che mancano al confine, ed il dolce che mi aveva preparato Liza il giorno prima è un’ottimo carburante per partire bene.

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Entro nella Repubblica di Altai ed il paesaggio si fa interessante, cominciamo a salire e ai lati si ergono montagne sempre più verdi ed alte.

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La mia media si attesta sugli 80, per preservare le gomme che mi avevano avvertito essere molto morbide e poco durevoli.

Questo fa sì che mi superino diversi mezzi, non ci faccio caso, finché ad un certo punto non mi superano due moto…interessante, un Transalp ed un’Africa Twin, con tutta l’apparenza di andare verso la Mongolia: li seguo accelerando un po’.

Si fermano, mi fermo anche io – “Are you going to Mongolia?” “Yes, you?” “Me too!” “Ok let’s go!”.

Amo il popolo motociclistico, 2 parole e ci siamo già intesi. Loro sono una coppia sposata ed un amico, Ungaro-Rumeni.

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Il Katun, fiume che dalla Mongolia scorre verso la Russia attraverso gli Altai, ha acque veloci e torbide, che ogni tanto danno luogo ad anse e paesaggi spettacolari come questo.

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Si prosegue, arriviamo a Kosh Agach, dove dormiamo in una camera tripla, ma in 4, spendendo 500 rubli a testa, non male. Ultimamente le Gastinitza sono molto pulite e c’è il divieto di entrare con le scarpe/stivali.

La mattina dopo riprenderemo il cammino verso Tashanta, mancano solo 50km ed oggi, Domenica, la frontiera è chiusa.

La mattina non c’è corrente, mancava dalla sera, ma pensavamo la “spengessero” per risparmiare in queste regioni così remote, invece è un blackout della regione intera ed i generatori sono accesi per mandare avanti le attività più importanti come polizia, ospedali etc. ma nel supermercato i conti si fanno con la calcolatrice e la coda si allunga.

Si arriva a Tashanta, che emozione, siamo quasi in Mongolia!

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La coda per la frontiera è lunga, e non si salta pur essendo mezzi “leggeri”, così attendiamo diverse ore, e nel frattempo ci raggiungono altri 3 motociclisti con BMW GS e…sono italiani, di Torino, incredibile!

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Facciamo gruppo ed espletiamo insieme le pratiche per il passaggio in terra mongola, che ci rendiamo conto essere così lunghe perché i cittadini dell’Asia centrale viaggiano stipati come sardine in piccoli van che trasportano di tutto, e così la polizia deve fare molta attenzione agli eventuali trafficanti.

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Ci siamo…gli ultimi km di sterrato, gli ultimi controlli alla frontiera mongola e….MONGOLIA!

Gli ungaro-rumeni ci hanno lasciati perché volevano sistemarsi presto per risolvere un loro problema alla moto, forse li ritroveremo strada facendo.

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Appena entrato l’aria che si respira è già diversa.

Comincia lo sterrato, e come benvenuto troviamo un Land Cruiser rovesciato con una gran botta davanti, e due corpi coperti a fianco, mentre una trentina di persone ai bordi della strada piangono, con solo un poliziotto addetto al controllo.

I miei nuovi compagni arrivano: Guglielmo, Alex e…manca Damiano?

Torniamo indietro, è caduto, e sta sistemando la borsa sinistra sulla moto, che nella caduta ha rotto il supporto (in plastica!) che la teneva appesa al telaio.

Decidiamo di fare pochi km per fermarci a dormire e svegliarci presto per permettere un cambio gomme e la riparazione della borsa.

Ci fermiamo nel primo villaggio, e mentre facciamo benzina arrivano dei bimbi come mosche sul miele: ci si appiccicano e non si staccano finché non gli regalo degli adesivi.

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Le facce sono Kazakhe o forse Uzbeke, occhi a mandorla ma visi caucasici.

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Un mongolo che era alla pompa di benzina si propone per “ospitarci”, la cifra è 10.000 Tugrit per vitto ed alloggio, 4€, mica male, lo seguiamo!

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La cena è a base di palline di pane, burro rancido che a dire il vero non ha un gran sapore, riso e carne di pecora, e poi la specialità: latte di cavalla!

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Il latte di cavalla non è pastorizzato e ce lo servono come una prelibatezza. Vi descriverò il suo sapore.

Sembra di bere yogurt irrancidito allungato con acqua, frizzantino e dal retrogusto di lievito di birra. Pessimo…le nostre facce non mentono ed i mongoli ridono.

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Noi gli facciamo assaggiare il caffè, senza zucchero. Le parti si invertono e le facce schifate stavolta le hanno loro.

La mattina cambiamo le gomme, ma prima c’è una sorpresa: il latte di cavalla non era offerto, ma andava pagato a parte! Ci chiede altri 10.000 Tugrit a testa, gliene diamo 5.000 e si accontentano salutandoci con gran sorrisi.

Arriviamo dal gommista. Ma dove è il gommista?

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Si, il gommista è lui, avrà 10-12 anni, ma ha una padronanza della tecnica straordinaria per la sua età…se pensiamo a cosa fanno i nostri dodicenni…beh…

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La strada si fa sterrata dopo circa 40km, ci aspettiamo che la Mongolia sarà tutta così per migliaia ancora.

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Ogni circa 3-400km si presenta una “città” con i servizi più importanti e tratti più o meno lunghi di asfalto.

Olgii. I bambini continuano a correrci incontro come matti, come se vedessero dei campioni della Parigi-Pechino.

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Il paesaggio  è mutevole, si vedono laghi, montagne e sullo sfondo ogni tanto anche della neve.

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Qui hanno tutti motociclette cinesi da due lire, viaggiano da un minimo di due ad un massimo indefinito generalmente attorno a 5, e senza casco.

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La segnaletica è in cirillico. Menomale, il mongolo antico è come l’arabo, solo che si scrive dall’alto verso il basso.

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Si trova sabbia lungo il tracciato, si ha difficoltà ogni tanto a gestire la mole di queste moto.

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Ad un certo punto scorgo qualcosa di davvero interessante, sembra un falconiere, con un’aquila, e suo figlio a gran gesti mi invita giù da loro. Vado.

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Mi indica il lazo con cui è tenuta l’aquila, io rifiuto, ma il padre mi mette a sedere su un piccolo cumulo, forse di m***a, e senza darmi tempo di pensare mi ritrovo col guantone e l’aquila a pochi cm dalla faccia. Ha degli artigli come dita ed un’apertura alare pazzesca. Che bella.

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Ci chiede 5000 Tugrit mentre torniamo alle moto…ma qui si paga tutto! Gliene do 1000 e saluto.

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I cavalli sembrano in cattività ma in realtà sono tutti marchiati, però pascolano liberamente.

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Si aprono, ogni tanto, gran dirittoni, do fondo all’8 e mezzo raggiungendo anche i 120 orari.

Le buche che compaiono senza preavviso, a causa delle ombre inesistenti o quasi, mi convincono a desistere e mantenere una media più bassa.

Il toulée ondulée è presente quasi ovunque. Per evitare vibrazioni si devono tenere gli 80-100, ma il problema delle buche suggerisce di vibrare un po’ ma mantenere la sicurezza.

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Oggi facciamo anche 3 guadi, il peggiore sarà una 40ina di cm con bei sassoni sul fondo.

Alex col suo 1100 lo fa senza problemi, io pure, ma Guglielmo e Damiano hanno qualche problema.

A Guglielmo si spenge la moto perché dell’acqua è entrata nei condotti aria, e dobbiamo portarlo a riva a spinta, mentre Damiano cade all’ultimo ed anche lui imbarca acqua. Spinta.

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Le moto ripartono dopo una decina di minuti, mancano decine di km al prossimo paese ma è quasi buio, decidiamo comunque di tirare per arrivare a Khovd.

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Non vediamo quasi niente e gli ultimi 5km sono una vera e propria pista di sabbia, è difficile tenere le moto dritte e Damiano cade di nuovo, senza conseguenze.

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Ci accampiamo finalmente al limitare della città, nel campo Gher.

Un bambino esce fuori e chiediamo di dormire, permesso accordato…esce poi anche la mamma, chiediamo di nuovo “Can we sleep here?”  e lei fa “Of course!”.

Rimaniamo stupiti. Qui, che parlano inglese?

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La notte si fa fredda, ci chiudiamo nelle tende dopo una cena condivisa.

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