Finirai per trovarla la via, se prima hai il coraggio di perderti... T. Terzani

Do svidaniya, Rossiya!

Do svidaniya, Rossiya! (pron. Dasvida’nia Rassi’a)
Ovvero, arrivederci, Russia!

Si, arrivederci, perche’ sono sicuro сhe un giorno tornero’ a far visita a questo paese, сhe inizialmente mi aveva colpito negativamente per alcuni fatti spiacevoli, poi mi e’ entrato nel cuore attraverso la bonta’ delle persone.

Ma ripartiamo da Khabarovsk.

Mi intrattengo un giorno in piu’, perche’ alcuni russi (ubriachi!) mi hanno chiesto di rimanere con loro per fare una partita al torneo di beach tennis сhe si sarebbe tenuto in quei giorni.

Sergey e Natasha, i miei host, partecipano guadagnando il 10imo posto, io scambio qualche palla per una buona ora ricordando i bei tempi di quando ero tennista.

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Il torneo si gioca lungo l’Amur, e questo e’ solo uno dei suoi bracci minori. Fa impressione.

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Giunge il tempo di lasciare Khabarovsk, grande citta’ ma piuttosto tranquilla, come le altre del Far East d’altronde.

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Ma non prima di aver cucinato una bella pizza…eh si, abbiamo trovato la mozzarella, e ora e’ obbligatorio prepararne una deliziosa!

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Lascio la mia calda stanzetta all’interno dell’appartamento di Sergey e Natasha, con dei bei ricordi assieme a loro.

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La strada per Vanino, nei primi 200km e’ molto buona, asfalto seminuovo e scorrevole.

Non si vede mai l’Amur, purtroppo, cosi’ a Lidoga decido di deviare per qualche km per andarlo a vedere per l’ultima volta. Purtroppo questo braccio del fiume e’ molto piccolo e non sortisce l’effetto che avrei sperato..sara’ per un’altra volta, ci rivedremo ne sono certo!

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Proseguo, la strada e’ ancora ottima, si percepisce сhe ho abbandonato la principale, le auto scarseggiano.

I panorami non sono male, la guida e’ piacevole у trovo anche i famosi ponti in assi di legno, ma…

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…purtroppo ci sono alcuni km i sterrato, davvero pessimi: mi bastano 80km di sterrato in queste condizioni, con pietre grandi ed appuntite, per rallentarmi di oltre un paio d’ore sulla tabella di marcia.

La media qui si attesta sui 25km/h.

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Ho poca benzina, non posso arrivare a Vanino, ma tanto so сру c’e’ un distributore della AZS a pochi km, 70 da Vanino.

Finalmente arrivo, avro’ ancora 20km di autonomia al massimo…ma…

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Il distributore non c’e’, у quando arrivo cio’ сру ту rimane sono solo i piedi dei pilastri della pensilina…deserto attorno.

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Sono messo male.

Ho ancora 3-4 litri di 80 ottani da Ulan Ude, nella stagna d’emergenza. Cavolo, che fortuna!

Spero bastino…alla media dei 20km/l dovrei farne sui 60-70, a Vanino ne mancano 55 circa.

Con apprensione, arrivo in centro, e subito mi fiondo alla prima stazione di servizio, 24 litri di 80 ottani riempiono il serbatoio all’orlo, il margine era di poco piu’ di 20km, sono stato fortunato.

Qui decido di andare subito a fare il biglietto per il giorno seguente, la nave partira’ alle 12.

Arrivo al porto ma nessuno parla inglese. Mi dicono di aspettare. Cosa accadra’ ora?

Sento il borbottare di un bicilindrico..e’ un’Africa Twin: sara’ il mio angelo?

Eh si, e’ il mio angelo e si chiama Maks, fa parte dei Black Unicorns, motoclub locale, у mi aiutera’ ad espletare tutte le pratiche, impossibili da completare da soli!

Fatto il biglietto chiedo consiglio su dove alloggiare…no problem, ci pensa lui!

Vitto ed alloggio nella sede del motoclub, per la modica cifra di…0 rubli…tutto gratis per noi motociclisti!!!

Noi?

Si, noi, perche’ c’e’ assieme a me anche un tedesco su Transalp 650 сhe prendera’ lo stesso traghetto.

Motociclisti, strana meravigliosa gente.

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Tra le dediche sul libro del club trovo anche questi due italiani! Incredibile!

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Sveglia presto, ore 8 si parte per il centro, si espletano le ultime pratiche e poi colazione e spesa prima del traghetto.

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L’attesa e’ lunga, estenuante. Faccio una breve ricognizione, il ponte per l’accesso alla nave non e’ rassicurante, pieno di binari ferrati e con assi grosse e distanziate, non sara’ semplicissimo manovrare la moto qui.

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Finalmente arriva la nostra nave…in ritardo di 5 ore…che sale a 8 ore perche’ la locomotiva non ha gasolio e non puo’ tirar fuori i pochi vagoni caricati all’interno.DSC02128

Nel frattempo facciamo amicizia con Watanabe san, giapponese residente a Sapporo ma сру lavora a Yuzhno/Sakhalinsk. Schietto  e di poche parole. Sento comunque сhe nascera’ un’amicizia tra noi.

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Intanto pranziamo, in attesa del ritardo, ed il solito gruppo di russi su di giri comincia a parlare ed a domandare da dove veniamo, dove andiamo, etc. e finiscono come sempre per offrirci qualcosa: stavolta si tratta di un buon salmone arrosto con vodka  e dessert. Grandi.

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Via, ci si imbarca..ore 20, piuttosto delle ore 12 previste!

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Saluto la Russia continentale, e l’Eurasia, per la prima volta in vita mia, con l’ultimo tramonto su Vanino.

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La cena e’ compresa sulla nave, niente di speciale, ma il mio nuovo amico Hartmut, tedesco di 61 anni di Colonia, in viaggio da 3 mesi per l’Asia centrale e la Russia, sembra gradire, e’ un tipo сhe si accontenta di poco, un viaggiatore alla vecchia maniera!

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La cabina ha l’oblo’, per fortuna, e ci godiamo le ultime luci della sera prima di addormentarci su uno dei letti piu’ duri su cui abbia mai dormito.

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Ore 11. Sakhalin in vista.

Nuvole e frescura in arrivo.

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Arrivati al porto, la procedura e’ abbastanza veloce, siamo i primi a scendere.

Watanabe san perde le chiavi della moto…davvero atipico per un giapponese…! Un ufficiale della nave me le consegna e quando le riporto a Watanabe lui e’ contentissimo e diventa amicone. Si offre di farci strada per Sakhalin e di aiutarci a fare i biglietti per Hokkaido.

Si apre una breccia nel cielo, il celeste e’ macchiato solo da qualche candida nuvola, mentre ai lati un paesaggio selvaggio ed ancora apparentemente inesplorato apre le porte della mia fantasia.

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Yuzhno-Sakhalinsk e’ un grande villaggio, non si puo’ definire una citta’, come afferma la mia host Victoria; viene da San Pietroburgo e per lei il paragone viene ancora piu’ facilmente.

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Con Watanabe san arriviamo alla Bi Tomo per fare il biglietto.

Cominciano le sorprese: qui si fa solo il biglietto passeggeri (190 euro), per la moto bisogna andare a Korsakov. 40km.

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Watanabe san e’ gentilissimo e ci accompagna al suo ufficio, dove la sua segretaria Inna ci offre pranzo e the verde freddo. Ottimo.

Da qui partiamo tutti insieme per Korsakov, la gentilezza non ha fine.

Facciamo il biglietto (altri 85 euro) e ci spiegano сhe dovremo cambiare gli yen prima di arrivare in Giappone perche’ la restante parte del biglietto (25.000 yen, 180 euro, e sticaaa…) si paga a Wakkanai prima di uscire dal porto.

Oltre a questo si pagheranno 160 euro (22.000 yen) per l’importazione temporanea della moto senza carnet, comprensiva di 6 mesi di assicurazione. Entro un anno dovremo uscire.

Hartmut ha il carnet de passages en douane, e paghera’ “solo” 18000 yen (130 euro). Il carnet pero’ costa 300 euro…decisamente non conveniente!

Cosi’ in totale la traversata costa 455+160 euro, circa il doppio del previsto!!

Ma per fortuna сhe c’era Watanabe san, senza di lui avremmo perso soltanto molto tempo senza arrivare a niente!

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Vado a cambiare yen.

Ho solo le carte, praticamente ho finito i contanti.

Nessuna delle 3 funziona allo sportello, cosi’ devo ritirare al bancomat rubli per poi cambiarli. Il limite di prelievo e’ 7500 rubli per volta e quindi devo ritirare 3 volte per arrivare al totale di 47.000 yen, sommando 15 euro di commissioni.

Ho speso piu’ negli ultimi 3 giorni сhe nell’ultimo mese…piango!!!

I primi 60.000 yen sono in tasca al sicuro, comunque.

DSC02204Beh, oramai e’ andata cosi’, mi godo un po’ Sakhalin, prima da solo, e poi in compagnia di alcuni amici, alcuni bikers ed altri amici della mia host, conosciuti qui.

E’ incredibile come le occasioni di fare amicizia siano molto piu’ alte qui nel far east, dove la concentrazione di popolazione e’ molto piu’ bassa.

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Rimanete sintonizzati…

30 Agosto 2014.

Ore 14.00, fuso orario di Tokyo.
Ore 7.00, fuso orario di Roma.

Dopo quasi 20.000km, 77 giorni di viaggio, centinaia di persone e paesaggi ancora negli occhi e nella mente.

Il sogno diventa realta’.

– GIAPPONE –

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Far Eastern Siberia.

Il mio tempo qui ad Ulan Ude è agli sgoccioli.

Non sarà un addio semplice, dopo aver vissuto come in famiglia per oltre 8 giorni in questo modesto appartamento di periferia.

Tuttavia preferisco non pensarci, per adesso la cosa migliore è continuare a godere dei giorni rimanenti, e così approfittiamo per fare qualche attività riposante…e golosa!

Natasha prepara un dolce che sua madre è solita preparare per le occasioni speciali, molto semplice e d’effetto.

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Praticamente pan di spagna a cubetti, inzuppato nella smietana addolcita da zucchero e coperto da una cascata di cioccolato fondente fuso.

La variante introdotta da Natasha è stata una banana tagliata a dischetti.

Garantisco che era una specialità, l’ho finito praticamente da solo in 3 giorni!

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Per smaltire un po’, il giorno seguente ci dirigiamo verso il tempio buddista di recente costruzione, che si trova in cima ad una collinetta non raggiungibile via bus causa lavori in corso per la strada.

Musiche dalla melodia cinese sono diffuse da altoparlanti, mentre spose buriate sfilano con le amiche tiratissime per qualche foto dal punto più panoramico di Ulan Ude.

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All’interno, appena arrivati, i monaci si sistemano e cominciano a gorgheggiare, come solitamente fanno quando devono fare qualche celebrazione particolare.

In questo caso pregano per qualcosa o qualcuno, e le persone fanno la fila presso uno sportello apposito (pagando) per farsi stampare dei cedolini con le proprie preghiere da consegnare ai monaci che li leggeranno cantando e pregando; e qui svanisce anche la sacralità del buddismo, ridotta allo stremo di un negozio di preghiere.

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Usciamo in silenzio mai voltando le spalle al Buddha, guai se gli si rivolge la schiena.

Purtroppo a metà ci scappa una risata, perché Natasha mi indica una foto e mi spiega che quella era una persona di Ulan Ude, morta in un incidente…la interrompo e le spiego che quello in realtà è il Dalai Lama e non riusciamo a trattenerci…che figura, tutti a guardarci storto!

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Fine giornata in relax.

Mattina sveglia presto, ma non troppo, recupero della moto, sistemazione dei bagagli, con un rito lungo e quasi penoso, ultimo sguardo alla camera che mi ha accolto per così tanto, nessuna nostalgia adesso, ma sento che presto ne sentirò la mancanza.

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Saluti, a Natasha ed al babbo Vladimir. Ci rivedremo?

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Scendo in “paese” e non resisto: devo fermarmi nella “Lenina square” per fare almeno una foto con la più grande testa di Lenin al mondo.

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Chissà se gli entra l’Arai? Secondo me no…il diametro è circa 5m!

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La strada dopo Ulan Ude la conosco fino al cinquantacinquesimo chilometro, affrontata per andare a passare la nottata in tenda presso lo “sleeping lion”.

Non male, perfino meglio nei km successivi.

Sono partito tardi ed alle 17 incrocio per la seconda volta la Transiberiana, si vede davvero sporadicamente, io credevo che corresse a fianco della strada, ed invece non è così.

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Faccio altri 100km, poco più, poi mi rendo conto che sono già entrato nel fuso orario di Chita, +1 ora rispetto Ulan Ude, e così decido di fermarmi appena possibile.

Trovo un Kafe, chiedo se sia possibile dormire in tenda dentro alla loro recinzione: Da!

Sono visibile dalla strada ma all’interno di un’inferriata, mi sento sicuro abbastanza da dormire.

Mentre mi appresto a montare la tenda ecco che la nuvola nera che avevo reputato non pericolosa scarica un fiume d’acqua a terra, devo trovare riparo percé il parcheggio in cemento dove avrei dormito adesso assomiglia al Baikal in versione ridotta.

Mi sistemo nell’anti-banya (la banya è la sauna russa, molto in voga qui) e spero di non essere disturbato.

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Come non detto, fino ed oltre le 23.30 continua ad arrivare gente, oltretutto è pieno di insetti e ragni, decido di togliere le tende e di montare la mia in mezzo al parcheggio nella zona meno bagnata.

Il risveglio è piuttosto buono, non sento la sveglia ma mi alzo per le 8 e per le 9 sono pronto dopo un the caldo e wafer al cioccolato.

Purtroppo devo fare di nuovo i conti col torcicollo che mi perseguita da UU, sarà una lunga giornata di guida.

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Mi avevano avvertito che la strada sarebbe stata brutta: ebbene, non ho mai trovato una strada migliore di quella che da Chita va a Khabarovsk.

O forse si, solo quella degli Altai era migliore, ma questa è comunque ottima!

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Km #0 del lungo tratto di Transiberiana da Chita a Khabarovsk!

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Chissà quanti km potrò fare oggi, mi convinco che se le condizioni del fondo sono queste sarò capace di farne almeno 500.

Mi fermo a fare benzina. Qui costa molto di più rispetto alla Russia prima del Baikal, la 80 ottani si trova difficilmente e costa quanto la 92 ottani di Novosibirsk.

Devo rifare i conti per il budget da destinarsi al carburante.

Conosco due motociclisti che non esitano a fermarsi per salutarmi, sono di S. Pietroburgo e stanno andando a Vladivostok.

Cavolo, in due su una moto, non riuscirò mai a capire come si possa fare a caricare il bagaglio e a non rischiare la vita ogni giorno per queste strade in 2!

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Pausa pranzo. Mangio della carne con il pane che mi aveva comprato Vladimir, il padre di Natasha, ed una delle uova che Natasha mi aveva lessato, in questo modo durano fino a 2 settimane, a seconda del clima ovviamente.

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Riparto.

Faccio pochi metri e un cartello mi desta l’attenzione. Non ci credo, ogni volta che leggo queste distanze rimango sbalordito.

Vabeh.

Dai, soli millenovecentonovantanove chilometri a Khabarovsk.

E che vuoi che sia.

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La strada è dritta, l’asfalto scuro, recente, a volte si sente ancora il profumo del catrame, l’umidità lo fa salire alle narici.

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Ogni tanto mi trovo a tu per tu con la moto.

Stai facendo un gran lavoro, grazie di avermi portato fin qui senza mai rogne.

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Alla fine della giornata, che reputavo impossibile terminare a Mogocha, eccomi qui dopo 750km circa.

Le medie che si possono temere qui sono altissime e per strada non c’è praticamente nessuno, un vero paradiso del silenzio e della solitudine.

Mogocha è un paese piuttosto grande per la media dei villaggi (pochi) che si incontrano qui nel Far East, e vi trovo una confortevole gastinitsa per 800 rubli.

Appena scoprono che sono italiano, come sempre accade, mi cominciano a raccontare che amano Celentano, Albano, Toto Cutugno: ormai anche io conosco a memoria le loro canzoni pur non avendoli mai ascoltati!

La simpatia che suscito mi permette di mangiare pure a gratis…grazie!

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La mattina l’atmosfera è da film horror: nebbia, ancora un po’ buio, sono appena le 7 e dalla finestra vedo questo.

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Riparto, non molto riposato e con il collo ancora dolorante, chissà quando mi passerà, finché l’umidità relativa si attesterà ancora al 100% come già da due giorni accade, forse mai!

Il panorama è spettrale, ma suggestivo.

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Mi fermo ad Amazar, uno dei villaggi più grandi della zona, dopo aver incontrato per strada alcuni motociclisti australiani che già avevo incontrato ad Ulan Ude, senza presentarmi però.

Faccio due chiacchiere con il “boss” e capisco che si tratta di un tour operator di viaggi in moto; ci scambiamo i contatti, chissà mai che un giorno l’uno non abbia bisogno dell’altro – a buon intenditor poche parole!

Amazar doveva essere la mia frugale pausa pranzo, si è invece trasformata in una regale sosta presso la casetta in legno di questo caro signore, Victor, che mi ha offerto dell’ottima carne di cavallo (ora ho provato anche quella!) corredata di insalata e le immancabili patate in padella.

E’ molto simpatico ed accomodante, ed alla fine mi regala pure della marmellata casalinga di lamponi: la adoro!!!

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E’ un fan di Putin e ricorda con nostalgia l’URSS, uno alla vecchia maniera, ex militare, ed è fiero di mostrarmi alcune delle sue foto da marine, anni passati tra Kamchatka, Vietnam ed Etiopia.

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Riparto.

Il silenzio del Far East mi stupisce ogni volta che mi fermo, il traffico è finalmente scarno e vedo una macchina ogni 2-3 minuti in media, che è molto, considerando che ci veniamo incontro circa ai 100km/h.

Le foreste corrono spesso lungo la strada. Betulle e abeti.

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E’ tardi, ed a pochi km da Shimanovsk trovo, neanche a farlo apposta, un Kafè che sembra soddisfare i miei requisiti di sicurezza.

Chiedo come al solito se sia possibile piantare la tenda, annuiscono, ma mi suggeriscono la loro gastinitsa.

Gli faccio capire che non voglio spendere i miei “dienghi” e così accettano di farmi dormire accanto al Kafe.

Per imbonirmeli mangio da loro, shashlick di maiale con cipolle e due fette di pane non troppo fresco.

La mattina la sveglia è per le 6 in punto, quando mi sveglio la foschia aleggia attorno a me, vedo forse per la prima volta in questo viaggio l’alba.

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Come si alza il sole anche la nebbia comincia a salire. Qui nel Far East il punto negativo è sempre questo, l’umidità.

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Una rana sembra attendermi per essere fotografata con la calda luce del risveglio.

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Riparto.

Dopo la nebbia il tempo si dice sia buono lassù, ma i km da fare sono tanti, e prima o poi dovrò pur beccare di nuovo acqua.

Così è. E’ un giorno bagnato oggi.

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Giorno bagnato in cui festeggio i 70.000, approssimati, km di questo motore.

La ciclistica ne ha ormai oltre 110.000. Mitica Hyper Ténéré!

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L’ultimo attraversamento della ferrovia.

Di là, a pochi km, c’è Khabarovsk. E l’Amur.

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Sergei mi aspetta al primo distributore col suo SX4 arancione.

In pochi minuti siamo a casa sua, dove ceno e faccio due chiacchiere con questa famiglia russa che mi ospiterà per i prossimi giorni a Khabarovsk.

Sto bene. Alla grande. Solo un po’ stanco, la stanchezza di oltre due mesi di viaggio.

Ma c’è qualcosa che non va, qualcosa non mi torna. Ho messo tra me e Ulan Ude 2800km in soli 4 giorni, tutto è filato liscio.

Sento di aver dimenticato qualcosa lì…

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From Russia with love

Wow, è già una settimana che sono ad Ulan Ude.

Città magnifica? Qualcosa di imperdibile? No…vi racconterò, ma ripartiamo da dove eravamo rimasti, UB.

Al Gana’s Guesthouse conosco tantissimi Viaggiatori di tutte le razze, tutti con la V maiuscola, e di fronte a loro devo inchinarmi per quanto sono esperti e spensierati.

Conosco un signore di Milano che ha come filosofia di vita il viaggio, ha ereditato una somma dal padre e non smetterà di viaggiare fino a che ce la farà, parole sue, tanto di cappello!

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Il dormitorio, 4€ al giorno, è situato sul tetto ed è composto di tante gher, carino anche se un po’…odoroso, diciamo!

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Riparto, la moto è a posto nonostante gli sterrati pessimi della Mongolia.

Mi sento un po’ solo, dopo aver affrontato 1800km in compagnia, e dopo aver vissuto la mia prima esperienza in ostello condividendo la giornata con tanti amici.

La strada non è male, ogni tanto devo prestare attenzione alle buche ma si scorre bene; mi fermo a mangiare, zuppetta di manzo con pasta fresca, energia calda che mi farà comodo.

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Arrivo a Sukhbataar, forse la seconda città della Mongolia, non c’è niente da vedere, ma all’orizzonte una tempesta si avvicina e mi preparo a prendere l’acqua indossando l’antipioggia Moto One.

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Un arcobaleno si fa spazio in uno strappo tra le nuvole, mi mette di buonumore.

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Arrivo in frontiera, mi aspetto lunghe operazioni, code interminabili, attese strenuanti, e invece…dopo aver fatto amicizia con una guardia doganale, ed essermi sentito augurare “Buon Viaggio!” in perfetto inglese, in un’ora sono fuori!

Russia, di nuovo, e mica ci credo!

Il paesaggio muta improvvisamente, ai lati della strada scorgo boschi di abete, in Mongolia solo verso la fine ho potuto vedere qualche albero non piantato artificialmente.

La strada è bagnata, non ho un buon presentimento…spero di poter arrivare ad Ulan Ude, poi mi ricordo del cambio del fuso orario e decido di fermarmi, sarei arrivato dopo le 23, troppo tardi.

Mi fermo in un caffè dove vedo 2 bici, magari sono due viaggiatori europei.

Così è, sono 2 francesi in viaggio verso Magadan, due matti direi, perché arriveranno lassù quando farà -30!

Comunque, ci godiamo un buon borsh caldo insieme e chiediamo di dormire in un posto sicuro, ci offrono il retro del Kafe e ci accontentiamo piantando la tenda.

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Purtroppo la mattina la sorpresa sarà trovare acqua su tutto il fondo della tenda, il telo verde è stata la mia maledizione.

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Ci auguriamo buon viaggio e ci salutiamo sperando di rivederci da qualche parte, sapendo che questo non avverrà forse mai.

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La strada per Ulan Ude è breve, solo 100km che scorrono lisci nonostante la pioggia e nonostante un problema “tecnico”: mancanza di benzina!

Sono in riserva da almeno 50km ed ho altri 30km di autonomia, forse, nessuna pompa di benzina nelle vicinanze, poi vedo un gruppo di fuoristrada che riconosco: li avevo già visti in Mongolia!

Mi offrono 1l della loro benzina per fornello, senza questa non sarei mai arrivato alla successiva stazione di servizio…il pieno è 24l, significa che dentro non ne avevo più di 1.5l.

La porta di Ulan Ude mi annuncia che sono entrato nella regione.

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Qui trovo Natasha e Rinchina, che mi aspettavano a casa, e subito si rendono molto disponibili offrendomi una doccia, un pasto caldo, ed a ruota un’escursione nel centro città, dove si trova la testa di Lenin più grande del mondo: quasi 8m per 42 tonnellate!

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Rinchina è Buriata, la popolazione che occupa storicamente questa parte di territorio, la Buriazia.

Le fattezze sono mongole, anche la lingua è simile, con alcuni termini ricorrenti, e la cucina pure, con base di carne, riso e ravioli; il suo modo di fare ricorda un po’ il Giappone, timida ed estremamente educata, ma forse questa non è una caratteristica comune dei Buriati.

I Buriati sono abbastanza ben integrati con i Russi, ma esistono ancora casi di razzismo.

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Appena fuori dal centro si osservano le tipiche case in legno.

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La giornata termina rapidamente e dopo una dormita su un bel letto la mattina mi sveglio col profumo di pancakes che Rinchina sta preparando.

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Pomeriggio libero.

Contatto Marta, una ragazza svizzera in viaggio verso in Giappone anche lei in moto, adesso via treno, e decidiamo di incontrarci in città.

Ovviamente lei è in perfetto orario, io, in ritardo…!

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Ci salutiamo dandoci appuntamento in Giappone come ci saremmo dati appuntamento al bar. Fantastico.

Torno a casa. Natasha ha un cugino che lavora alla fabbrica di aerei ed elicotteri di Ulan Ude, il quale è in grado di fornirci degli inviti allo spettacolo per la celebrazione dei 75 anni.

Incredibile, ho sempre guardato questi spettacoli in video su internet ed adesso i Mig sfrecciano a 100m sopra la mia testa compiendo mirabolanti acrobazie.

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C’è il pieno, davvero impossibile contare quante persone ci fossero.

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La sera spettacolo pirotecnico e poi a letto, non presto nonostante avessi deciso di andare al Baikal il giorno dopo.

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Parto tardi, è quasi mezzogiorno, devo fare 270km circa ma sembrano ottimi, scorrevoli, paesaggio non eccezionale ma piacevole.

Mi fermo per pranzo presso un fiume, scatolette e pane come al solito.

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Arrivo al Baikal, al parco nazionale della Holy Nose Peninsula, la strada negli ultimi 60km è stata pessima e qui c’è sabbia a tratti.

Non sono mai cascato in Mongolia, e qui stupidamente inciampo in un banco di sabbia e mi appoggio in terra a 10m dalla destinazione…fanc***!!!

Poco importa, mi sistemo nella spiaggia e subito mi viene dato il benvenuto da uno stormo di uccelli in postazione.

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L’acqua non è molto pulita, sarà colpa della sabbia, ed è fredda, ma non come immaginavo, sarà sui 10-15°C.

Sono freddoloso e non oso avvicinarmi se non per bagnarmi i piedi.

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Tutta la leggenda che sta dietro al Baikal, non riesco a percepirla: il lago più profondo del mondo, oltre 1600m, contenente 1/5 delle acque dolci del mondo, da qui non sembra così imponente e neanche il vento riesce a trasportare la sua anima, nascosta forse da troppe aspettative.

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Manovrare sulla sabbia è stato durissimo e mi concedo un paio d’ore di riposo in tenda prima di preparare un buon riso ai formaggi.

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Nel frattempo comincio a sfogliare pure il frasario di giapponese, e mi basta poco per capire che non sarà un’impresa semplice.

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Dopo un lungo e riposante sonno sulla sabbia rimetto tutto nelle borse e riparto un po’ assonnato.

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La strada all’interno del parco è carina. Sterrato, purtroppo a tratti toulée ondulée, ed abeti ai lati.

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Dopo pochi km mi fermo, è già ora di pranzo.

Trovo un piacevole posticino accando a dei laghi “figli” del Baikal.

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Ho ancora l’ultima scatoletta di pesce, con ribrezzo mi faccio coraggio e la finisco, dopo averle odiate per tutta la Mongolia.

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La sera, dopo essere tornato, giro due-tre supermercati cercando della mozzarella; voglio ricambiare l’ospitalità di Natasha e di suo padre preparando della pizza, ma purtroppo non c’è, sembra che ad Ulan Ude non si trovi niente di simile, così decido di improvvisare una schiacciata.

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Sono fortunato e mi riesce molto bene, il sapore è lo stesso di quella che preparo a casa, sono strafelice.

Loro apprezzano e il padre di Natasha addirittura afferma di non mangiare così bene da un sacco di tempo!

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La notte passa rapidamente e la mattina pianifichiamo con Natasha un giro in moto su consiglio di Rinchina, andremo a visitare il “leone che dorme”, una conformazione collinare che pare assomigli ad un leone.

Natasha è emozionata, ama le moto.

Oggi è il suo compleanno e regalarle un viaggetto in moto è il minimo.

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Dopo neanche 60km arriviamo e dalla cima della collina è possibile ammirare un fantastico scenario.

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Scendiamo a valle, vicino al fiume, e sistemiamo la tenda; il posto sembra sicuro.

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E’ ora di cena…un appuntamento come questo potrebbe farvi rompere con qualsiasi donna…scomodo a bestia, zuppa liofilizzata e moscerini…ma Natasha sembra gradire, è la prima volta che fa un’esperienza del genere e tutto è una sorpresa per lei.

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Il sole va giù ed il freddo comincia a calare, accendiamo il fuoco e cuociamo delle kartoshka (patate) direttamente sulla brace, deliziose.

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Si dorme…o perlomeno ci si prova. A domani.

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La mattina ci alziamo doloranti ed assonnati, e appena tornati a casa mi cimento di nuovo in cucina, nella preparazione di una torta, stavolta sarà torta alle carote.

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Il risultato non è il top ma qui tutti sembrano apprezzare, meglio così.

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Beh, che dire, ormai è una settimana che sono qui ad Ulan Ude, adesso avrete capito perché!

Domani dovrei ripartire, un po’ a malincuore devo dire, ma la mia missione ancora non è compiuta.

Tanti saluti!

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Ulaanbaatar. Ritorno all'Occidente.

Ripartiamo, con calma, un po’ delusi di non aver trovato una guida per andare al parco nazionale.

In moto sarebbero altri 800km andata e ritorno, tutti in fuoristrada, significherebbe 3-4 giorni di guida; rischioso, siamo già molto stanchi.

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Mancano pochi km ad Arvaikheer, dove i miei amici torinesi sanno che c’è una missione cattolica presieduta da Padre Marengo.

Appena arrivati, sono le 13, ci fermiamo per trovare un posticino per mangiare le solite aringhe, intanto chiediamo ad un signore se conoscesse il Padre.

Una telefonata, due parole in inglese, ed il signore ci accompagna con la sua jeep fino alla missione…incredibile, trovata al primo colpo!

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La chiesa è realizzata in una gher, per dare meno nell’occhio.

Le famiglie si avvicinano alla missione perché qui offrono docce gratuite 2 volte alla settimana, asilo gratuito ed una serie di servizi che in città non si sognano neanche.

Una presenza silenziosa ed importante, non invasiva a quanto ci è parso.

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Ma sono le 13 passate, e la fame aumenta…ci chiedono se abbiamo mangiato..no…neanche a farlo apposta siamo arrivati qui per pranzo e senza batter ciglio le due suore ci preparano delle ottime farfalle al pesto, con frittata, formaggio, pane e dolce finale!!!

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Dopo una chiacchierata sulla cultura mongola e su come la missione sia nata e cresciuta, ci spostiamo a visitare gli altri locali.

I mongoli usano questo ricovero per fare tutto quello che non è permesso a casa loro.

Facebook spopola anche qui.

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Nell’asilo stanno circa 20 bambini, che il primo mese di frequentazione di solito ingrassano di 3-4kg. Tutta salute!

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Questo qua sotto è un bambino, ha i capelli lunghi perché ancora non ha 3 anni, età alla quale gli verranno tagliati a simbolo del passaggio dell’età più critica.

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Ci salutiamo tra mille sorrisi e promesse, è stato bello soggiornare qui seppur per poco.

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Sulla strada per Kharkhorin, la vecchia capitale, non è raro vedere gher e bambini che giocano vicino alla strada.

Due di loro stavano piangendo per non so cosa.

Li chiamo a me, si avvicinano, gli regalo alcuni adesivi, torna il sorriso e si mettono in posa per una foto.

Come soldatini.

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Proseguiamo, le tracce nella valle si moltiplicano.

A volte diventano 10, forse 15, hai l’imbarazzo della scelta.

L’attenzione però va sempre mantenuta alta, sia per la presenza di sabbia a tratti che fa imbarcare la moto, sia per i guidatori mongoli, che non si fanno scrupoli a passarti radente pur di proseguire il loro cammino.

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Incrociamo un tempio buddista in stile tibetano.

Quasi abbandonato.

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Dopo la breve visita ci fermiamo a pochi km dalla città, in un hotel con campo gher, contrattiamo il prezzo ma è veramente difficile spuntarla, otteniamo 10.000 Tugrit a testa per dormire e doccia.

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 Mangiamo nella gavetta una calda minestra di pasta e fagioli con secondo di tonno e piselli.

Niente male.

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La mattina ci svegliamo con la pioggia ed il freddo.

Imbottisco la tuta Moto One, indosso l’antipioggia.

Tutti bardati partiamo alla volta dei templi della vecchia capitale dei tempi di Gengis Khan, il sanguinario imperatore mongolo vissuto nel 1200.

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Un’ora è più che sufficiente per osservarne la storia.

Rimontiamo in sella.

Qualche sprazzo di sole apre il cielo.

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E’ ora di pranzo, e tante sono adesso le occasioni per mangiare, ci stiamo riavvicinando alla “civiltà” e le strade sono costellate di locali dove si fa cucina locale.

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La preparazione delle vivande non è proprio asettica, diciamo..

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Ma l’aspetto finale ed il gusto sono davvero ottimi!

Non so perché ma quando viaggio ho sempre una fame bestiale e quando vedo questi piatti li divoro.

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Proseguiamo, la strada è asfaltata, ma è peggio delle piste.

Delle buche che potrebbero inghiottire un’auto si aprono lacerando la superficie scura dell’asfalto, ogni tanto quest’ultimo lascia posto a tratti sterrati con sassi grossi, le vibrazioni sono tremende, ed il pericolo aumenta quando l’asfalto si fa nuovamente liscio ed acceleriamo, ignorando che la prossima buca è lì dietro l’angolo pronta a far saltare i paraolii di Alex o a farci ondeggiare paurosamente.

Le auto non si fanno scrupoli a frenare improvvisamente o spostarsi sull’altra corsia per evitare le asperità, costituendo un gran rischio per noi.

Arriviamo finalmente ad Ulaanbaatar.

La strada è migliorata negli ultimi km, ma il traffico è veramente caotico.

Ci manteniamo in fila ed uniti, in gruppo, mentre attorno è l’anarchia, clacson, sorpassi azzardati, cambiamenti di traiettoria improvvisi: bisogna stare in tensione ogni secondo per evitare il peggio.

Arriviamo al Golden Gobi. Pieno! Ripieghiamo sul Gana’s Guesthouse, in mezzo al campo gher, un posticino non proprio consigliabile, ma hanno una specie di cortile interno dove ricoveriamo le moto.

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Le stanze non sono il top a pulizia ma i letti sono comodi e la doccia è calda.

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La sera siamo stanchi e non abbiamo voglia di cucinare, ci permettiamo un ristorante coreano per riempire le nostre pance, e godiamo quando ci viene servito questo bendiddio.

Tutto molto speziato, ma ottimo. 8€, neanche.

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Il giorno seguente facciamo un breve tour per UB, la mattinata parte per acquisto dei souvenir da parte degli amici torinesi, io skippo, odio comprare souvenir.

UB è una città moderna, all’occidentale, grandi palazzi e nuove costruzioni si fanno spazio dove una volta c’erano delle gher e campi nomadi.

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E’ il compleanno di Damiano e festeggiamo con un pranzo mongolo.

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Qui siamo proprio nel centro, niente di speciale, una grande piazza, un grande palazzo per il governo, la statua di Sukhbaatar al centro, eroe mongolo che li ha resi indipendenti dalla Cina, ed all’interno dell’ingresso, la rappresentazione del grasso Gengis Khan.DSC01478
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Vicino alla guesthouse c’è anche un tempio, purtroppo è chiuso ma anche da fuori è molto pittoresco.

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Per cena facciamo di nuovo festa, prepariamo un chilo e mezzo di spaghetti alla carbonara, ma mancano sale, formaggio ed abbiamo pure poca pancetta…i locali apprezzano ma gli confidiamo che una carbonara così fatta in Italia può significare la galera!

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Di nuovo mattina.

Ci separiamo, Guglielmo, Damiano ed Alex mi salutano puntando verso la Russia, ammetto che mi dispiace, dopo aver vissuto una tale esperienza insieme.

Ma la mia strada è ancora verso Est.

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Il deserto a 2000 metri.

Il sole splende alto, ma è freddo una volta fuori dalle coperte.

I residenti nella Gher escono fuori vestiti all’occidentale, e sul loro fuoristrada Toyota prendono la via del centro, mentre il ragazzetto rimane a casa.

Gli regalo qualche adesivo e chiedo una foto. Come un soldatino si mette in posa, come d’altronde fanno tutti i mongoli quando punti la macchina verso di loro.

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“Good boy!” mi fa, mentre vado via.

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Oggi sarà una giornata dura, tutto deserto, piatto e senza variazione di paesaggio, ma non lo sappiamo, così partiamo con grandi aspettative.

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Lo spettacolo è desolante.

Guidare qui è stancante e poco stimolante, a volte.

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La polvere è ormai già ovunque, non ci faccio più caso, mi abituo a questo pensando che fa più “wild”.

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Ogni tanto si trovano dei piccoli (1-2m di diametro) “santuari” dove vengono lasciate offerte buddiste di cibo e chincaglierie varie.

Spesso l’odore qui è forte, il cibo si decompone e puzza.

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La strada non è semplice, in più l’aria secca e la polvere ci mettono del suo per aumentare la difficoltà.

La gola è secca, il naso si riempe di pulviscolo e la mucosa lacrima sangue.

Le labbra si spaccano, le mani rattrappiscono dentro i guanti.

Terribile.

Questo cammello deve essere deceduto proprio in seguito a tale secchezza.

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Dopo circa 350km di nulla più assoluto decidiamo di fermarci.

Damiano ha avuto nuovamente problemi con la borsa e ci fermiamo per ripararla vicino ad una gher in mezzo alla valle.

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Dormiamo praticamente in mezzo a m***a di pecora e sabbia.

Probabilmente qualcosa di questi elementi è pure finito nella gavetta mentre cucinavamo.

Per i prossimi 10 anni non ci ammaleremo, presumo.

Ci godiamo l’ultima luce e dopo una cena a base di minestra liofilizzata (buonissima stasera) ci corichiamo. Metto i tappi, i miei vicini di tenda spesso sono rumorosi…eh eh..

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La mattina trovo una sorpresa accanto alla tenda. Al palo è legata una pecora.

Riesco già ad immaginare la sua fine.

Smonto tutto sperando che non mi punti per darmi una capocciata.

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Proseguiamo delusi dal percorso del giorno precedente, pensando che anche oggi sarà lo stesso.

Non è così!

Per la prima volte vediamo un animale che solitamente si può osservare solo allo zoo…ha due gobbe, vedo bene?

Si, è proprio un cammello, anzi, sono tanti cammelli, una specie di mandria!

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Anche loro pascolano liberamente, ma sono controllati, hanno tutti un fiocco all’orecchio.

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Di tanto in tanto si trovano degli aggregati che fanno da crocevia tra una strada e l’altra.

E qui si trovano caratteristici personaggi.

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Qua è fantastico. Adoro il silenzio della Mongolia.

E’ una sensazione di pace mai provata prima.

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Ci fermiamo in uno spiazzo per mangiare, dopo aver fatto spesa ad Altaj.

Sento un odore particolare, diciamo così.

Accanto a dove mangiamo sorge una sorta di ricovero per animali, ma mi avvicino e in terra vedo tante zolle, come avessero arato all’interno.

No, non sono zolle di terra.

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E’ merda.

Qui la seccano per poi bruciarla.

In Mongolia non esistono alberi, per via del deserto e per via del forte vento, perciò si affidano a qualsiasi fonte combustibile si possa trovare.

Persino plastica, polistirolo…diossina pura.

Trovarsi vicino al camino di una gher è un’esperienza da evitare assolutamente, terribile!DSC01210

Qui oltre ai combustibili fantasiosi si inventano anche murature fantasiose.

Ecco che si può osservare l’opus bottigliatum.

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Di nuovo cammelli. Quasi ci si fa l’abitudine.

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Lungo la strada le motorette sfrecciano e si sbracciano per salutare.

Addirittura si fermano se tu ti fermi e ti si avvicinano curiosi.

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Quando la giornata sembra andare per il meglio, ecco che accade il fattaccio.

Disfatta.

Damiano in mattinata era caduto di nuovo, con ulteriori danni alla moto. Anche la borsa destra era andata, ma sembrava potesse proseguire.

No.

La pista ha deciso per lui che non poteva proseguire.

Dopo aver più volte perso la borsa, che non stava più in sede, l’amarissima decisione.

Continuare così avrebbe significato prendersi troppi rischi e rallentare il gruppo a tempo indefinito.

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L’immagine è emblematica.

Il sacco impermeabile ha già preso il suo posto sulla moto, con all’interno tutto il contenuto delle borse rigide.

Addio.

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Facciamo gli ultimi 80km verso il prossimo paese.

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Appena arrivati siamo l’attrazione per chiunque, come sempre.

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Chiediamo dove dormire.

Una chiamata, niente inglese, ma bastano pochi gesti per capire che qualcuno sta arrivando.

E’ una famiglia mongola; ci guidano verso la loro abitazione, dormiremo nella gher accanto al loro manufatto in legno.

E’ la nostra prima notte in gher, siamo eccitati, e dopo aver tirato un po’ sul prezzo otteniamo di dormire e mangiare per 10.000 Tugrit, 4€ per l’esattezza.

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La signora ci porta un pasto “pulito” e gustosissimo.

Riso con ketchup, carne di pecora a verdure al forno, davvero squisito.

E l’immancabile chay.

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Tutto ottimo…Morfeo ci coglie d’improvviso, e così cadiamo beati in un sonno profondo, dopo giornate intense come quelle passate nel deserto mongolo non è facile rimanere attivi oltre le 22.

La mattina il cielo è terso e siamo tutti di buonumore.

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Ogni tanto, nel mezzo del nulla si trovano dei piccoli aggregati più o meno turistici dove delle gher preparano piatti caldi ed offrono posti letto, spesso c’è anche un market nei pressi.

Come ci fermiamo, dalle tipiche tende nomadiche mongole si allungano all’infuori tante facce di bambini e non, che poi prendono coraggio e si avvicinano.

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Alcuni sono inizialmente timorosi, ma poi quando li inviti a sedersi sui nostri bolidi non possono resistere.

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Ed una manciata di adesivi è sempre sufficiente per farli contenti.

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Ci fermiamo a pranzo. Sardine e pane.

Non ne possiamo più, questo è il nostro rancio di mezzogiorno, sardine sempre, o carne in scatola, quasi meglio la pecora.

Poco importa. Siamo fermi al centro di un piccolo parco pubblico in un paesello e ci stupiamo vedendo bambini che ancora giocano all’aperto rincorrendosi senza gli occhi puntati su un display.

E’ una gioia vederli, esprimono vita.

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Le facce sono già più diverse, ci stiamo avvicinando al sud e quindi alla Cina.

Gli zigomi si appuntiscono e sporgono di più, il naso e la faccia si appiattiscono.

Ripartiamo. Cammelli, stavolta più in carne.

Non è raro vederne quasi senza gobbe, l’acqua non abbonda certo qui e loro ne risentono, così come i cavalli che a volte sono scheletrici.

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La strada oggi si fa più verde e sembra una di quelle che possiamo osservare anche nelle nostre campagne, erba ai lati ed al centro.

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Ancora animali, è sorprendente la facilità con cui incontriamo mandrie di cavalli o pecore, in grande numero, pascolare o stando semplicemente con le gambe a mollo nell’unica pozza nel raggio di km e km.

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Bayankhongor. Prima di ogni città c’è sempre un tempio in alto su un colle da cui si osserva la valle.

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Tornando alla moto continuo a notare il problema della Mongolia, persistente e drammatico a tratti.

La sporcizia è ovunque.

Nel deserto, perfino in mezzo al niente, si trovano bottiglie e confezioni in plastica.

Non c’è cultura del riciclo, la spazzatura è ammucchiata un po’ ovunque, a cielo aperto si aprono puzzolenti discariche.

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La città sembra disordinata, a tratti vediamo nuove costruzioni in cemento, realizzate senza molta logica, con pilastri non allineati, senza ponteggi e con pessimo gusto estetico; dall’altra parte notiamo i quartieri più poveri con le gher recintate da staccionate in legno.

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Non è raro osservare bambini vendere per strada.

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Stasera ci vogliamo godere un po’ di buon cibo mongolo dopo le tante sardine.

Scegliamo un ristorante tra i meno sporchi, ordiniamo scegliendo tra i piatti che vediamo servire ad altri clienti e prendiamo così una minestra di carne di pecora, degli involtini fritti con carne di manzo ed un secondo di carne, riso e verdure.

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Risiediamo per oggi in albergo.

Per ottenere una stanza abbiamo discusso quasi mezzora, non riusciamo a capire se i mongoli facciano finta di non capire o non vogliano proprio.

Quando chiediamo qualcosa cominciano a guardare nel vuoto, parlano tra di sé e poi ci ignorano, come se non avessimo chiesto niente.

Alla fine riusciamo ad ottenere di dormire in una stanza quadrupla per poco più di 4€ per uno, con doccia calda.

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Mongolia. Storie di un altro mondo.

Saluto Liza, ottima host CS, direi forse la mia preferita per gentilezza, nonostante non parlasse bene inglese.

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La strada da Novosibirsk in poi sembra buona, ma la pioggia mi coglie di nuovo, regalandomi la solita sensazione di depressione: odio la pioggia quando viaggio, non mi permette di fare i km che voglio, niente foto o quasi, umido addosso..

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Lascio l’Oblast di Novosibirsk ed entro nel Krai di Altai (Oblast è il nome delle regioni interne, Krai quello delle regioni di confine).

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Devo ripiegare sulla solita gastinitza, soliti 1200 rubli. E’ pulita ed accogliente, ma l’indomani forse sarà ancora brutto tempo, chissà, intanto i pensieri non sono dei migliori…

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La mattina mi sveglio di buona lena, alle 6.30, per percorrere tutti i 550km che mancano al confine, ed il dolce che mi aveva preparato Liza il giorno prima è un’ottimo carburante per partire bene.

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Entro nella Repubblica di Altai ed il paesaggio si fa interessante, cominciamo a salire e ai lati si ergono montagne sempre più verdi ed alte.

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La mia media si attesta sugli 80, per preservare le gomme che mi avevano avvertito essere molto morbide e poco durevoli.

Questo fa sì che mi superino diversi mezzi, non ci faccio caso, finché ad un certo punto non mi superano due moto…interessante, un Transalp ed un’Africa Twin, con tutta l’apparenza di andare verso la Mongolia: li seguo accelerando un po’.

Si fermano, mi fermo anche io – “Are you going to Mongolia?” “Yes, you?” “Me too!” “Ok let’s go!”.

Amo il popolo motociclistico, 2 parole e ci siamo già intesi. Loro sono una coppia sposata ed un amico, Ungaro-Rumeni.

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Il Katun, fiume che dalla Mongolia scorre verso la Russia attraverso gli Altai, ha acque veloci e torbide, che ogni tanto danno luogo ad anse e paesaggi spettacolari come questo.

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Si prosegue, arriviamo a Kosh Agach, dove dormiamo in una camera tripla, ma in 4, spendendo 500 rubli a testa, non male. Ultimamente le Gastinitza sono molto pulite e c’è il divieto di entrare con le scarpe/stivali.

La mattina dopo riprenderemo il cammino verso Tashanta, mancano solo 50km ed oggi, Domenica, la frontiera è chiusa.

La mattina non c’è corrente, mancava dalla sera, ma pensavamo la “spengessero” per risparmiare in queste regioni così remote, invece è un blackout della regione intera ed i generatori sono accesi per mandare avanti le attività più importanti come polizia, ospedali etc. ma nel supermercato i conti si fanno con la calcolatrice e la coda si allunga.

Si arriva a Tashanta, che emozione, siamo quasi in Mongolia!

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La coda per la frontiera è lunga, e non si salta pur essendo mezzi “leggeri”, così attendiamo diverse ore, e nel frattempo ci raggiungono altri 3 motociclisti con BMW GS e…sono italiani, di Torino, incredibile!

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Facciamo gruppo ed espletiamo insieme le pratiche per il passaggio in terra mongola, che ci rendiamo conto essere così lunghe perché i cittadini dell’Asia centrale viaggiano stipati come sardine in piccoli van che trasportano di tutto, e così la polizia deve fare molta attenzione agli eventuali trafficanti.

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Ci siamo…gli ultimi km di sterrato, gli ultimi controlli alla frontiera mongola e….MONGOLIA!

Gli ungaro-rumeni ci hanno lasciati perché volevano sistemarsi presto per risolvere un loro problema alla moto, forse li ritroveremo strada facendo.

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Appena entrato l’aria che si respira è già diversa.

Comincia lo sterrato, e come benvenuto troviamo un Land Cruiser rovesciato con una gran botta davanti, e due corpi coperti a fianco, mentre una trentina di persone ai bordi della strada piangono, con solo un poliziotto addetto al controllo.

I miei nuovi compagni arrivano: Guglielmo, Alex e…manca Damiano?

Torniamo indietro, è caduto, e sta sistemando la borsa sinistra sulla moto, che nella caduta ha rotto il supporto (in plastica!) che la teneva appesa al telaio.

Decidiamo di fare pochi km per fermarci a dormire e svegliarci presto per permettere un cambio gomme e la riparazione della borsa.

Ci fermiamo nel primo villaggio, e mentre facciamo benzina arrivano dei bimbi come mosche sul miele: ci si appiccicano e non si staccano finché non gli regalo degli adesivi.

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Le facce sono Kazakhe o forse Uzbeke, occhi a mandorla ma visi caucasici.

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Un mongolo che era alla pompa di benzina si propone per “ospitarci”, la cifra è 10.000 Tugrit per vitto ed alloggio, 4€, mica male, lo seguiamo!

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La cena è a base di palline di pane, burro rancido che a dire il vero non ha un gran sapore, riso e carne di pecora, e poi la specialità: latte di cavalla!

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Il latte di cavalla non è pastorizzato e ce lo servono come una prelibatezza. Vi descriverò il suo sapore.

Sembra di bere yogurt irrancidito allungato con acqua, frizzantino e dal retrogusto di lievito di birra. Pessimo…le nostre facce non mentono ed i mongoli ridono.

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Noi gli facciamo assaggiare il caffè, senza zucchero. Le parti si invertono e le facce schifate stavolta le hanno loro.

La mattina cambiamo le gomme, ma prima c’è una sorpresa: il latte di cavalla non era offerto, ma andava pagato a parte! Ci chiede altri 10.000 Tugrit a testa, gliene diamo 5.000 e si accontentano salutandoci con gran sorrisi.

Arriviamo dal gommista. Ma dove è il gommista?

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Si, il gommista è lui, avrà 10-12 anni, ma ha una padronanza della tecnica straordinaria per la sua età…se pensiamo a cosa fanno i nostri dodicenni…beh…

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La strada si fa sterrata dopo circa 40km, ci aspettiamo che la Mongolia sarà tutta così per migliaia ancora.

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Ogni circa 3-400km si presenta una “città” con i servizi più importanti e tratti più o meno lunghi di asfalto.

Olgii. I bambini continuano a correrci incontro come matti, come se vedessero dei campioni della Parigi-Pechino.

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Il paesaggio  è mutevole, si vedono laghi, montagne e sullo sfondo ogni tanto anche della neve.

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Qui hanno tutti motociclette cinesi da due lire, viaggiano da un minimo di due ad un massimo indefinito generalmente attorno a 5, e senza casco.

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La segnaletica è in cirillico. Menomale, il mongolo antico è come l’arabo, solo che si scrive dall’alto verso il basso.

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Si trova sabbia lungo il tracciato, si ha difficoltà ogni tanto a gestire la mole di queste moto.

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Ad un certo punto scorgo qualcosa di davvero interessante, sembra un falconiere, con un’aquila, e suo figlio a gran gesti mi invita giù da loro. Vado.

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Mi indica il lazo con cui è tenuta l’aquila, io rifiuto, ma il padre mi mette a sedere su un piccolo cumulo, forse di m***a, e senza darmi tempo di pensare mi ritrovo col guantone e l’aquila a pochi cm dalla faccia. Ha degli artigli come dita ed un’apertura alare pazzesca. Che bella.

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Ci chiede 5000 Tugrit mentre torniamo alle moto…ma qui si paga tutto! Gliene do 1000 e saluto.

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I cavalli sembrano in cattività ma in realtà sono tutti marchiati, però pascolano liberamente.

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Si aprono, ogni tanto, gran dirittoni, do fondo all’8 e mezzo raggiungendo anche i 120 orari.

Le buche che compaiono senza preavviso, a causa delle ombre inesistenti o quasi, mi convincono a desistere e mantenere una media più bassa.

Il toulée ondulée è presente quasi ovunque. Per evitare vibrazioni si devono tenere gli 80-100, ma il problema delle buche suggerisce di vibrare un po’ ma mantenere la sicurezza.

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Oggi facciamo anche 3 guadi, il peggiore sarà una 40ina di cm con bei sassoni sul fondo.

Alex col suo 1100 lo fa senza problemi, io pure, ma Guglielmo e Damiano hanno qualche problema.

A Guglielmo si spenge la moto perché dell’acqua è entrata nei condotti aria, e dobbiamo portarlo a riva a spinta, mentre Damiano cade all’ultimo ed anche lui imbarca acqua. Spinta.

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Le moto ripartono dopo una decina di minuti, mancano decine di km al prossimo paese ma è quasi buio, decidiamo comunque di tirare per arrivare a Khovd.

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Non vediamo quasi niente e gli ultimi 5km sono una vera e propria pista di sabbia, è difficile tenere le moto dritte e Damiano cade di nuovo, senza conseguenze.

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Ci accampiamo finalmente al limitare della città, nel campo Gher.

Un bambino esce fuori e chiediamo di dormire, permesso accordato…esce poi anche la mamma, chiediamo di nuovo “Can we sleep here?”  e lei fa “Of course!”.

Rimaniamo stupiti. Qui, che parlano inglese?

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La notte si fa fredda, ci chiudiamo nelle tende dopo una cena condivisa.

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Ciao Russia, ci rivediamo...

Barabinsk.

Mi ha detto Ivan che lì ci sarebbe stato un buon ostello a prezzo discreto.

Mi dirigo verso Novosibirsk con l’idea di fermarmi proprio lì, nel mezzo preciso tra Omsk e la capitale della Siberia.

Parto non prestissimo, la moto la sento bene ma ogni mattina devo riabituarmi alle buche delle strade russe ed ogni volta ho paura che si smonti tutto.

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La strada non è fantastica, sia per i cantieri che trovo che per la monotonia.

I camion la fanno da padrone in tutta la Siberia, sono presenti sempre e comunque, così come il traffico, che non accenna mai a sparire nonostante siamo nel mezzo del niente.

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Verso l’ora di pranzo accosto sempre, e prendo delle deviazioni per i campi, in pochi metri mi trovo in dei paradisi con betulle e distese di steppa tranquille e perfette per la pausa spuntino.

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Poi c’è sempre qualche sorpresa: ogni tanto vedevo persone chinate a raccogliere non so cosa in ogni angolo della steppa, ma cosa staranno cercando?

Allora mi chino anche io e…ecco, la sorpresa della Siberia sono queste fragoline di steppa!

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Ogni tanto, anzi spesso, qualche Lada mi passa accanto, i Russi amano fare pic-nic nella steppa, ed è da loro che ho preso ispirazione.

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Sono contento.

Specie quando sono da solo, nessuna macchina in vista, mi siedo e scruto la Siberia, sento qualcosa di grande.

Guardo la moto, ne sono fiero, realizzata in un pezzo unico grazie alla sapienza di Fabio, mi dà soddisfazione: consumi mai sotto i 19km/l in qualsiasi condizione, solo 1.5kg d’olio consumati in 10.000km, ciclistica precisa nonostante la mole, frenata migliorata di molto, e nonostante gli strapazzamenti, nessun cedimento.

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Riparto, la strada continua dritta inesorabile, quando di nuovo mi coglie lo spavento.

No, dai, non posso essere fermato per l’ennesima volta dalla polizia!

Rallento.

Mi sento stupido…

Mi avvicino, è una sagoma di cartone: questo era già successo in Polonia 2 anni fa, sembra che nei paesi dell’Est sia in voga questo metodo preventivo…e funziona!

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Arrivo a Barabinsk, mancano pochi km e potrò riposarmi nel dormitorio che mi aveva consigliato Ivan.

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Molto lentamente arrivo, in questo paesucolo senz’anima, la Gastiniza bianca con finiture blu appare, accosto.

Zdrastvuitye! (Buongiorno) Skolka stoit za notch? (quanto è per una notte?)

1850 rubli. COSA?

Sono più di 40€, ringrazio e me ne vado. Imposto sul Garmin il più vicino motel, 4 km e ci sono.

1000 rubli, 20€, mi accontento, l’atmosfera è buona ed ho una bella stanza con bagno in comune, ma pulito.

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Si riparte. Mi aspetta un’altra tappa da soli 330km.

Ho diviso la distanza tra Omsk e Novosibirsk in due tratti uguali di 330km, modesti da percorrere in una giornata intera, ma pesanti.

Perché? Presto detto.

Le strade siberiane si fanno sempre più uguali km dopo km, prendo sonno guidando perché il paesaggio non cambia, in più oggi non riesco a fermarmi più di 10 minuti per la pausa pranzo che devo andarmene perché sono sotto attacco dalle zanzare.

A lato della strada è tutto un acquitrino.

Penso che se dovessi sbandare la moto affonderebbe inesorabilmente nelle acque siberiane, e d’inverno rimarrebbe congelata là sotto.

E magari tra milioni di anni la troveranno degli scienziati e si domanderanno cosa fosse.

Arrivo a Novosibirsk.

Proprio come l’aveva descritta Ivan: grande, enorme, ma con strade capaci di contenere il suo traffico, e così in non molto tempo raggiungo la mia prima destinazione, dopo aver cercato indicazioni nella zona prescelta: NBS Motor, concessionario e meccanico moto.

E’ l’ora del cambio gomme, ancora hanno del battistrada, ma sono del tutto inutili per le piste mongole, così su loro consiglio (anche perché non avevano molta altra scelta) monto delle Metzeler Enduro 3 Sahara.

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Il meccanico non vuole essere fotografato e mi chiede di uscire…esco odiandolo, perché detesto quando qualcuno mette le mani sulla moto senza che possa controllarlo.

Mi garantiscono 3-4000km di percorrenza con queste gomme. EH???
Io spero di farcene tanti altri, devo arrivarci in Giappone!

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E adesso raggiungo Liza.

Abita 20km a sud di Novosibirsk, un’altra mezzoretta e la raggiungo. Ci incontriamo alla fermata del bus vicino casa sua.

Arriva in bicicletta, su una graziella, e mi porge un foglio con una traduzione in inglese.

Non parla benissimo inglese perciò si è prodigata affinché capissi, traducendo con il suo pc e stampando il testo.

Andiamo nel suo appartamento, mi concede una doccia riparatrice e poi andiamo…nella spiaggia!
Quale spiaggia? Quella dell’Ob sea, ovviamente, dove l’Ob forma un bacino immenso, tale da apparire come un vero e proprio mare.

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Facciamo barbecue sulla riva dell’Ob Sea, che ganzo, penso che potrei fare spesso un fuocherello vicino ai prossimi appostamenti tenda.

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Si fa buio, la tempesta che vedevamo all’orizzonte si avvicina impetuosa, ce ne sbattiamo un po’, finché poi non comincia a piovere seriamente, dopo essere stati avvertiti da qualche forte raffica di vento.

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Cerchiamo di scappare verso casa ma è impossibile, così chiediamo soccorso ai russi che avevano la tenda accanto a noi, e loro contentissimi ci ospitano e ci offrono da mangiare e da bere, e buona compagnia.

Siamo bagnati fradici.

Loro, ubriachi fradici.

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E’ bello stare in compagnia di locali, l’atmosfera è davvero russa!

Il giorno dopo su consiglio di Liza vado allo Zoo.

Prendo una Marshrutka, i minibus che scorrazzano come matti ovunque nei paesi ex USSR, e poi la Metro, che qui va come le giostre…a…gettoni!

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Devo aver avuto una faccia molto spaesata all’uscita della metropolitana, perché questa ragazza si è avvicinata a me e mi ha chiesto se avessi bisogno di aiuto…una volta saputo che stavo andando allo zoo si è offerta di accompagnarmici, facendosi quasi 2km a piedi…wow..spasibo!!

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All’interno ci sono animali di ogni tipo, mi chiedo come possano resistere d’inverno animali della Savana, o d’estate animali come il lupo siberiano o l’orso polare…qui d’estate si arriva anche a 40°C, l’escursione è esagerata se pensiamo ai -45 dell’inverno.

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Per tornare prendo il “trenino” diesel che dallo zoo fa un giro di qualche km dentro il parco. E’ usato dai russi per “allenarsi” alla Transiberiana.

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Tipica strada vicino alle bellezze del centro…sterrata!

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La sera decido di portare un po’ di spirito italiano in questa terra fredda, e preparo sugo con carote, cipolla, pomodori pelati e…olio di semi di girasole…accidenti!

Non riesco a trovare tutti gli ingredienti, e le verdure sono di scarsa qualità, forse arrivano dall’estate scorsa…però almeno la pasta la prendo buona: Maltagliati, a 1.50€ per mezzo chilo, mannaggia! La Barilla costa più di 2€…menomale abito in Italia!

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Il risultato non è male infine…però mangiamo con cucchiani…ahhh, la cultura gastronomica, se sapessero cosa è!!!

Beh, mi aspetta l’ultimo giorno a Novosibirsk, anzi, a dire il vero è già finito, e domani è l’ora di saltare in sella verso gli Altai e la Mongolia.

Liza è stata un’ottima host, accomodante e gentile, nel vero spirito Couchsurfing.

Da ora in poi starò abbastanza lontano dalla civiltà, presumo, almeno dopo il confine mongolo.

Perciò i collegamenti potrebbero essere troncati già da domani, o al max tra 3-4gg, per circa 2 settimane.

Pazientate, me ne vado un po’ fuori dal mondo.

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Siberia. La terra che dorme. Anzi no.

Ekaterinburg è bella, forse la più bella città russa che abbia visitato, per ordine, pulizia, architettura, storia, vita.

Ma c’è sempre qualcosa che manca.

Come dice Marta (un’altra motociclista in viaggio con destinazione Giappone) sembra che alle città russe manchi…l’anima.

In Europa annusi la storia ovunque, dovunque ti giri c’è un aneddoto, un libro su cui studiare, qui sembra tutto talmente recente e sotto una bolla di cristallo che non pare vero.

Comunque, non mancano gli spunti interessanti, ed anche qui vecchio e nuovo si scontrano in una battaglia senza pari dove le case tradizionali in legno perdono sempre.

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La prima sera Oksana mi accoglie nella sua casa, ed andiamo a fare 2 passi in centro, io esco in pantaloncini ed infradito: me ne pentirò, pioverà e farà freddissimo!

Comunque riesco lo stesso ad ammirare il tramonto sulla città “nuova”.

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Lo skyline della vecchia città non è certo da meno!

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In centro si trovano i classici palazzi/monumenti che si  possono vedere in qualsiasi altra città sovietica.

Il palazzo del municipio…

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Lenin…

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La cattedrale ortodossa con le sue incredibili cupole dorate.

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Altre chiese ortodosse.

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L’università.

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Sverdlov.

Ecco, Sverdlov, chi era? Era un politico e leader socialista degli anni 20, e vi chiederete voi, che ci fa qui?

A lui è stata dedicata la città in tempi sovietici, che fino al 1991 si chiamava infatti Sverdlovsk.

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Lascio ancora spazio alle immagini, che parlano da sole, Ekaterinburg ha davvero mille angoli e punti di vista diversi ed altrettanto affascinanti.

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Una curiosità: da quando sono in Russia ho notato che strappare un sorriso è veramente difficile, perché?

Secondo alcuni è perché i russi esprimono senza artifizi quello che provano, perciò se non hanno voglia di sorridere non lo fanno; secondo altri è proprio consuetudine non sorridere.

Questo mi ha messo molto in difficoltà, perché il sorriso è la prima arma che usiamo quando frequentiamo qualsiasi luogo pubblico.

E al 99% in Russia nessuno risponderà al sorriso, a meno che non si trovi in situazione di imbarazzo.

Le due ragazze conosciute ad Ekaterinburg mi hanno suggerito di fare lo stesso: non sorridere…potrebbe risultare equivoco!

E così mi hanno dato dimostrazione della tipica espressione russa!

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Approfitto di un giorno in più in città per fare manutenzione: l’uniball cigolava e così ho smontato il leveraggio ed ho ingrassato con Nils Performance Grease Blue (non volevo portarlo, menomale non mi sono dato ascolto quando l’ho pensato!)…operazione non semplicissima date le condizioni dell’officina improvvisata, ma problema risolto!

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Un’occhiata anche alla batteria Aliant…che sta facendo benissimo il suo lavoro!

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Ecco, questo è l’appartamento dove ho alloggiato per 3 notti, in attesa di ripartire in direzione Omsk.

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Ultimo saluto agli amici di Ekaterinburg.

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Non sto più nella pelle…ieri ci siamo sentiti con Gianclaudio…è qui vicino…Gianclaudio chi?

Gianclaudio Aiossa, biker calabrese con in testa il record Milano-Vladivostok in 13 giorni.

Ci siamo visti più volte a migliaia di km da casa che in Italia.

Ed ogni volta era come sentircisi, a casa.

Quando incontri Gianclaudio è semplice respirare aria di amicizia, e vedersi ad Ekaterinburg sull’incrocio dei nostri itinerari è stato…emozonante!

Quando ho udito il sibilo della sua 3 cilindri ed ho scorto la sua sagoma mi ha colto un’esplosione di felicità.

Vai recordman, Vladivostok ti aspetta!

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Mi aspetta una giornata piovosa e freddissima, 10°C forse; decido di partire comunque senza imbottitura: pessima decisione!
Dopo tre ore devo fermarmi perché sto congelando. Approfitto della pausa pranzo presso un Kafe dove mangio shashlick (spiedino di carne) per imbottire la giacca.

Nessun problema adesso, si prosegue, sempre sotto l’acqua, ma ben protetto dagli accessori e dall’abbigliamento Moto One.

Raggiungo Tyumen, la prima città siberiana, e accidenti se non è Siberia, il maltempo imperversa e non riesco a fermarmi neanche un po’.

DSC00411Non so dove mi fermerò, ma una cosa è certa, se continuerà a piovere e fare così freddo per tutta la Siberia sarà dura arrivare in fondo.

Dopo una pesante giornata il tempo si rischiara, faccio benzina, scopro che la 80 ottani va bene sulla moto, non c’è molta perdita di potenza ed il motore gira rotondo e parco nei consumi, oggi 20.5km/l. E solo 56 cent al litro.

Una lussuosa Gastintiza è proprio davanti al benzinaio; sento il prezzo, 1200 rubli, vedo la camera, grande e con bagno privato, wifi, frigo, supermarket a due passi, insomma una pacchia, allo stesso prezzo di quello schifo di Gastinitza ad Ufa: Ya biru! (la prendo!)

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Per risparmiare un po’ cucino sempre in camera…i soliti maledetti wurstel che sto imparando ad odiare. Tutto il resto costa carissimo e sono costretto a mangiare sempre questi insaccati.

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La mattina parto col vento in poppa ed il sole che splende.

La Siberia è anche questo!

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Mi fermo per pranzo. Mi allontano un po’ dalla strada principale, e sono in mezzo ai campi. Bello.

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Adoro starmene qui da solo, con i miei pensieri, senza rumore di auto.

Quando per strada sono da solo, nessuno nello specchietto né dietro l’orizzonte, allora mi sento leggero, e felice.

Purtroppo non capita spesso, né adesso né sulla Transiberiana, c’è sempre traffico ed è veramente difficile non vedere auto, e questo va contro ad ogni aspettativa…io credevo che qui passasse un’auto ogni morte di papa!

La Siberia è soprannominata la terra che dorme, ma d’estate non pare essere così!

Arrivo ad Omsk.

Vengo accolto come un alieno, tutti girano intorno alla moto, forse non ne hanno mai vista una così, e chiedono continuamente foto insieme. Una la faccio fare anche con la mia macchina fotografica.

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Arriva Ivan, il mio host, che mi accompagna a casa sua.

Vive con i genitori, l’appartamento è piccolo ma l’atmosfera è molto accogliente e subito mi offre una doccia, da mangiare ed un’uscita ad Omsk.

La cattedrale è senz’altro stupenda, peccato che i sovietici, come accaduto per tutti i monumenti religiosi, abbiano distrutto l’originale, questa è infatti solo una ricostruzione.

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Il giorno seguente la cugina di Ivan, Olga, chiede di accompagnarmi in giro, studia italiano e per migliorarlo vorrebbe parlare un po’ con me: quando le ricapita di vedere un italiano ad Omsk, accetto volentieri!

Olga è una ragazza carina e gentile, dai tratti più europei che asiatici.

Mi fa da guida alla città e mi porta in un ristorante per assaggiare cibo locale: il più strano è l’akroschka, una specie di insalata in minestra, con brodo di…kvass!
Kvass, la bibita frizzante ottenuta dalla breve fermentazione del pane nero.

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Andiamo alla chiesa ortodossa più vecchia, dove ancora regna un’atmosfera antica.

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Il nostro giro termina al parco, la sera torno da Ivan a riposarmi ed a rimettere in sesto la moto: le strade russe hanno allentato (non so come) il bullone posto in fondo alla forcella anteriore destra e devo rimediare stringendolo…non è semplice perché andrebbe bloccato da dentro, ma riesco comunque.

Subito dopo mi aspetta la cena della mamma di Ivan…mmm ottima! Borsch, purè con carne, insalata di cavolo, poi miele artigianale, late, latte condensato, pane fresco, the…non mi sembra vero e divoro tutto con un grande appetito!!

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Saluto Ivan, la mattina devo svegliarlo mentre sonnecchia perché per me si sta facendo tardi, racimolo tutta la mia paccottiglia e con l’ultimo sguardo ad Omsk mi dirigo verso la capitale della Siberia, Novosibirsk.

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BAM road: solo 4 opzioni per arrivare in fondo.

Ultima puntata del racconto della BAM road, affrontata dai due temerari motociclisti inglesi Peter Foulkes e Jon Brookbanks, stavolta si entra nel vivo!
A raccontare è Jon:

 

Ad ogni crinale ti chiedi quale ostacolo starai per affrontare, ed il mio cuore affonda ogni volta che il tracciato si divide. A questo punto una strada va sempre in alto, conducendo ad un ponte in legno marcio, o semplicemente ciò che ne rimane.L’altra strada va verso il basso, portando ad una sorta di guado.

Questo è tipico della BAM road, e senza possibilità di tornare indietro ci sono veramente solo 4 opzioni per proseguire…

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  • Opzione 1: Attraversare il ponte

Ci sono letteralmente centinaia di ponti da superare lungo la BAM road. Sono stati costruiti negli anni ’30 del 1900, gran parte di quelli in legno sono adesso marci, e molti collassati. Questi sono normalmente realizzati con traverse in legno della ferrovia, ma rattoppate con vecchie tavole, tronchi, rami degli alberi e persino tavoli. Alcuni sono estremamente stretti, si distendono lungo vasti e potenti freddi fiumi. La superficie di questi è un incubo per i motociclisti e spesso ci sarebbero poche possibilità di sopravvivere ad una caduta. Occasionalmente si vedono targhe coperte di fiori in memoria di qualcuno che ha perso la vita, o anche un camion caduto e giacente sul suo tetto al di sotto di una sezione precaria di ponte. Questi sono aspri promemoria dei pericoli di tale avventura, e spesso ci fanno domandare cosa stessimo facendo semplicemente “per divertimento”.

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Un particolare attraversamento che nessuno di noi due dimenticherà è quello dell’estremo ponte sul Vitim. Tornato a Mosca, Tony P., membro del “Sibersky Extreme Project”, ci ha dato un primo resoconto della sua storia dell’orrore su quel ponte, ed adesso era tempo della nostra. Era solo il secondo giorno, e come siamo arrivati sul crinale della collina ricordo di aver detto “porca pu**ana”. Sapevamo entrambi che questo momento sarebbe arrivato, ma nessuno pensava che l’avremmo raggiunto così presto. Prima di partire per questo viaggio, sia io che Pete pensavamo che in fondo avremmo potuto sorpassarlo senza problemi, ma il nostro punto di vista è cambiato immediatamente quando con timore abbiamo guardato giù all’enorme massa d’acqua che si riversava sotto di noi. La lunghezza dell’attraversamento è incredibile, l’altro capo del ponte sparisce all’orizzonte. La superficie è costituita da traverse in legno della ferrovia, tenute insieme da ampie maglie metalliche. Nel mezzo c’è una grande rampa, con grezzi listelli su ogni lato. Per l’intera lunghezza il ponte è estremamente stretto senza barriere laterali. Perfino solo camminarci mette in subbuglio il mio stomaco, e guardando in basso alle acque che fluiscono a velocità spaventosa mi fa girare la testa. Pete mi ha guardato e mi ha detto “solo stare qui mi fa stare male”.

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Era ovvio che percorrerlo in moto sarebbe stato meno goffo di quanto pensassimo, ma il più piccolo errore sarebbe stato fatale, così non c’era altra opzione che percorrerlo a piedi spingendo le moto. Tenere una moto a pieno carico controllandola con la frizione e camminando di lato non è un compito semplice. Certamente non aiuta avere stivali da fuoristrada. C’è sempre un alta percentuale di inciampare o rimanere intrappolati con la gamba sotto le borse posteriori. Sono andato per primo, con Pete che mi seguiva da vicino. Stava andando bene, finché non ho raggiunto la metà. Come la ruota anteriore è salita sulla rampa ho perso il momento e la moto ha cominciato a scivolare all’indietro anche con il freno tirato. Stavo gocciolando di sudore dalla punta del naso, e come al solito i miei pantaloni hanno cominciato a calare fino alle ginocchia! Fortunatamente sono stato capace di ricompormi, tirare su i pantaloni e attraversare la rampa in una dolce azione. Poi ho guardato Pete con paura mentra superava l’ostacolo. Una volta in salvo sulla sponda opposta ci siamo seduti sul bordo del ponte guardando indietro in soggezione, realizzando che il Vitim era ormai dietro di noi. Per cavalcarci una moto devi avere palle d’acciaio.

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Spesso un ponte non esiste, o è collassato, o non è mai stato finito: a questo punto dobbiamo ricercare l’opzione 2, guadare il fiume.

  • Opzione 2: guadare il fiume

L’acqua che scende dalle montagne è spesso gelida e scorre veloce. A volte sei faccia a faccia con un fiume così grande che è ovvio che non puoi guadarlo. Altre volte è meno chiaro, ed uno di noi deve procedere a piedi al fine di prendere una decisione. Sasso, carta, forbici questi momenti contano tanto quando hai un lungo giorno davanti. L’altezza dell’airbox è un fattore limitante, ma vedere il tuo motore sott’acqua, sentire il suo tono cambiare, e sentire la moto sballottata di lato è sempre un’esperienza scomoda.

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Se non puoi guidare, o guadare il fiume, e non c’è un ponte da cui attraversare, beh allora è tempo per l’opzione 3, guidare sulla ferrovia.

  • Opzione 3: Guidare sulla ferrovia

Da bambino mi veniva insegnato di non giocare vicino alle rotaie, perciò guidarci una moto sembrava fuori questione. Comunque, quando guidi sulla BAM road spesso non c’è opzione. Al 3° giorno il tracciato è scomparso, ed era chiaro che non potevamo passare questa sezione. A questo punto abbiamo fatto il nostro primo riluttante tentativo di tornare indietro e cercare la ferrovia. Sfortunatamente l’unico spazio disponibile per continuare era dalla parte opposta dei binari, e in poco tempo ci siamo trovati in una situazione di panico frenetico nel tentativo di portare le moto di là. Senza pensare troppo abbiamo posizionato la mia moto, aperto il gas e lasciato la frizione, sperando che le sospensioni assorbissero i binari in modo da sorpassarli. Questo non è successo e con la ruota anteriore nel mezzo dei binari, la posteriore rimbalzando mi ha sbalzato di sella. Alla fine, la moto a pieno carico era in mezzo alla ferrovia, bloccata. Per fortuna Pete ha mantenuto la calma ed è venuto ad aiutarmi a tirarla su, riuscendo a sorpassare i binari. Tremando dalla paura ci siamo seduti pensando quanto stupidi eravamo stati. Sapendo che questa non sarebbe stata l’ultima volta che avremmo eseguito questa manovra, abbiamo speso un po’ di tempo a sviluppare una soluzione più elegante. Nello stesso giorno abbiamo dovuto ripeterla 6 volte, e senza più acqua a disposizione. Questo era il giorno numero 3, l’inferno.

Il nostro più lungo e pericoloso attraversamento è capitato al giorno n° 5. Il ponte era oltre 200m ed alla fine c’era una curva secca dei binari, rendendo impossibile capire se stesse arrivando un treno da lontano. A distanza potevamo vedere una piccola capanna, dove due guardie ferroviarie stavano di controllo. Questi ragazzi vengono scaricati lì dal treno nel mezzo del niente, e stanno alcuni giorni in solitudine, addetti al controllo del traffico. Ci siamo fermati ed abbiamo discusso della possibilità di camminare sui binari per raggiungerli, prima. Forse potevamo parlare alle guardie e ottenere il premesso di guidare le moto sul ponte? Tentando di comunicare con una guardia che non parlasse inglese avrebbe solo ritardato le procedure, e c’era la possibilità che non acconsentisse al nostro piano. Abbiamo deciso di fare un tentativo. Abbiamo seguito la nostra classica strategia, spengere i motori, ascoltare molto attentamente, quindi attraversare il ponte uno per volta mentre ci tenevamo in contatto con l’interfono. Se ci fosse stato alcun segno di treno in arrivo, allora avremmo dovuto scendere dai binari schiacciandoci in uno dgli strettissimi vani di servizio del ponte, dove speravamo che ci fosse abbastanza spazio da evitare il treno in arrivo. Questa sezione della ferrovia ha traverse in cemento armato, fornendo così una buona superficie dove guidare la moto. Provando a non pensarci, ho acceso il motore e accelerato sul ponte, snocciolando una marcia dietro l’altra fino alla 4a una volta raggiunto il termine. Ho potuto vedere la guardia uscire dalla capanna, e con un enorme sollievo ho continuato fino alla fine dell’attraversamento e spento il motore. Ho guardato indietro e Pete non era che un puntino a molta distanza. Ho ascoltato che non arrivassero altri treni e quindi segnalato via interfono “VAI VAI VAI!”.  Pete è arrivato volando sul ponte, a pochi centimetri dal bordo delle traverse. Non c’era spazio per errori, e non osavo pensare alle conseguenze di uno sbaglio.

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Una volta in fondo, abbiamo guidato lentamente verso la guardia, e tentato di raccontare in modo calmo, come se quello che avevamo appena fatto fosse stato del tutto normale. Essendo praticamente nel mezzo del nulla, solo dio sa cosa questo abbia pensato quando ha visto 2 moto apparire. Appariva stordito, ed ha cominciato a inveire qualcosa in russo. Lo abbiamo addolcito con 500 rubli stringendogli la mano, a questo punto ha sorriso, ci ha chiamato pazzi, ed incredibilmente ci ha invitati a stare nella sua capanna per una tazza di the ed un po’ di zuppa calda. Eravamo grati al fatto di aver trovato questo ed essere ancora vivi alla fine. Senza idea di quante volte ancora avremmo rischiato la pelle lungo la strada per Tynda, abbiamo deciso di  fermarci in anticipo…5 attraversamenti ferroviari su ponte erano abbastanza per un giorno soltanto.

In alcuni casi, perfino guidare lungo la ferrovia non è più un’alternativa possibile, a questo punto è tempo per l’opzione numero 4…trovare un’imbarcazione, o sedersi e pregare per un grosso camion.

  • Opzione 4: cercare l’assistenza di una imbarcazione o di un camion

Erano le 10.30 del giorno n°2, ed avevamo già conquistato più della nostra normale quota di ostacoli, incluso il poderoso Ponte sul Vitim. Ma appena abbiamo deciso di fermarci abbiamo raggiunto un enorme fiume senza attraversamenti possibili. C’era una guardia che non permetteva l’uso della ferrovia. Ci ha spiegato che se avesse accettato di farci passare e ci fosse stato qualche problema avrebbe potuto rimetterci il lavoro. Ma sapevamo che questa era Russia, e con sufficiente ammontare di gesti on le braccia ed una mancia altrettanto grande, qualunque cosa sarebbe stata possibile. Dopo 1 ora di negoziazioni, che non sono mai facile in russo, ci siamo accordati per pagare la grande somma di 7500 rubli per l’assistenza di alcuni locali. Mentre il sole stava calando ci siamo ritrovati a caricare le moto, una per volta e senza bagagli, in un piccolo fuoribordo. Con un serbatoio pieno da 25l per ogni moto, sollevare le moto sulla prua della barca è stato difficile, e poi abbiamo dovuto tenerle in piedi durante un’attraversamento traballante.

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Tuttavia l’operazione è andata a buon fine, perdendo davvero poco tempo. E’ stato un giorno di successo, quindi ci siamo fermati ed abbiamo festeggiato con una bottiglia di vodka. Non è mai una buona idea, inutile dire che il giorno dopo siamo stati puniti per questo.

Il giorno n°4 ci siamo dovuti di nuovo dovuti arrendere davanti ad un altro profondo fiume. Infreddoliti, bagnati ed esausti, ci siamo seduti sotto un cespuglio. Tuoni e fulmini, mi chiedevo quanto tempo avremmo dovuto aspettare prima che qualcuno vennisse in nostro soccorso. Questo è stato un momento particolarmente difficile. Eravamo senza aiuto ed abbiamo cominciato a pensare che fosse troppo presto (come stagione) per attraversare la BAM road. Forse i livelli dell’acqua erano ancora troppo alti? A volte non abbiamo visto camion per giorni interi, così ci siamo chiesti cosa sarebbe successo se ad un certo punto ci saremmo completamente bloccati. L’ultima cosa che avremmo voluto sarebbe stato di rovinare il viaggio per questo. Ad un certo punto, con la coda dell’occhio scorgo un camion sull’altra sponda del fiume, ed in un disperato sforzo per ottenere aiuto ho corso verso la riva del fiume e ho urlato all’autista.  Il camion aveva un grande carico, ed era chiaramente inutilizzabile al nostro scopo. Comunque, con nostra grande sorpresa è venuto a darci una mano, ed entro 30 minuti un grande camion stava “navigando” nel fiume verso di noi. I ragazzi ci hanno guidato ad un grande cumulo di terra, dove insieme siamo stati in grado di trasportare le moto sul retro.

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Pete ed io ci siamo seduti sostenendo le moto durante il guado. E ‘stato un momento incredibile, incredibile come il camion ci portasse senza sforzo su questo gigantesco ostacolo, e ancora una volta abbiamo vinto contro le asperità del percorso. Con le moto in sicurezza dall’altro lato i camionisti ci hanno invitato nella loro cabina e ci ha offerto una tazza di tè. Non hanno accettato neanche uno spicciolo per il loro sforzo enorme per aiutarci, così abbiamo fatto una foto e cercato di fare il nostro meglio per mostrare il nostro apprezzamento. Quei ragazzi sono duri come chiodi.

Gli esempi descritti nelle opzioni qui sopra potranno darvi una qualche idea delle sfide quotidiane che abbiamo affrontato sulla BAM, e attraverso questo incredibile viaggio ci siamo accampati ogni notte accanto alla ferrovia. La terra sembrava letteralmente tremare sotto di noi quando i grandi treni a vapore passavano rumoreggiando, e il suono lancinante delle loro trombe spesso mi ha svegliato in un sudore freddo. Una sera, con il ricordo fresco del trascinamento della moto sulla pista e sulla ferrovia, Pete ha avuto un incubo e si è lanciato fuori dalla sua tenda alle 3 del mattino, convinto che ci eravamo accampati sulla ferrovia e che eravamo sicuramente spacciati! Gli orsi erano un’altra nostra paura, la gente del posto ci aveva avvertito innumerevoli volte sugli avvistamenti nella zona. Abbiamo pensato che rimanere vicino alla ferrovia sarebbe stata la strategia più sicura. Quando possibile avremmo acceso un fuoco e mangiato a 50 metri dalle tende. Ogni fruscio di un sacchetto di plastica, o il crepitio del fuoco portavano questo pensiero alla ribalta della mia mente, rendendo difficile per me a dormire. Spesso eravamo in moto sotto pioggia torrenziale, guadando fiumi gelati, e ciò significava che la nostra marcia era costantemente bagnata, eravamo fradici alla sera. Una bella serata asciutta è garanzia di una mattina di sole. La maggior parte dei giorni ci svegliavamo al suono degli acquazzoni, sapendo così che era giunto il momento di fare i bagagli di nuovo e affondare i piedi rugosi e pieni di vesciche nuovamente dentro gli stivali bagnati. Tutto questo è stato duro, ma l’ultima goccia dopo una lunga giornata sono i milioni di zanzare che ronzano intorno. A volte ce ne erano così tante che non abbiamo potuto neanche sederci e mangiare insieme, dovevamo piantare la tenda e fiondarci dentro! Al mattino a malapena riuscivamo a parlare, così ci davamo il tempo di riprenderci un po’ prima di affrontare la ripartenza.

6 notti e 7 giorni e abbiamo finalmente completato la sezione occidentale della BAM road. Giunti a Tynda, ho attivato l’interfono per dire “Congratulazioni Pete, sei un duro bastardo”.

Mentre scrivevo questo blog ho riletto una mail che avevo ricevuto dal mio amico Chris. Aveva scritto “Godetevi la BAM road compagni, sicuramente non può essere così male?”

Beh, è ​​stata davvero così brutta invece. Alcuni giorni erano come l’inferno, ma guardando indietro è stata la cosa migliore che io abbia mai fatto. La scarica di adrenalina e di sollievo che ogni ostacolo può portare non ha prezzo, e il senso di realizzazione per il completamento della missione rende ogni secondo valevole di essere vissuto. Imbarcarsi in una sfida difficile è come spingere se stessi al limite, e la ricompensa sta nel dimostrare ciò che si può fare. Il nostro amico Liam Page conosce questa sensazione fin troppo bene, dopo aver firmato per la “Marathon Des Sables”, una gara di 6 giorni per 151 miglia di endurance attraverso il deserto del Sahara in Marocco, la gara podistica più dura sulla terra. Buona fortuna a lui………io piuttosto preferirei cavalcare di nuovo sulla BAM!

TESTO TRADOTTO A CURA DI FRANCESCO RISTORI – ORIGINALMENTE DA WWW.TOUGHMILES.COM

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Dalla BAM non si passa, parola di camionista russo

Riprende il racconto della BAM road, affrontata dai due temerari motociclisti inglesi Peter Foulkes e Jon Brookbanks.
A raccontare è Jon:

 

BAM road non possibile

Così un gruppo di camionisti russi ci hanno comunicato, incrociando le loro braccia ed urlando, che la BAM road sarebbe stata un’impresa impossibile, secondo loro.

Questa è spesso l’opinione dei locali, così abbiamo provato a non ascoltarli, ma intimorisce comunque, soprattutto sapendo che avremmo avuto da percorrere ancora tanti km nel buio prima di raggiungere una forma di civilizzazione qualsiasi. Erano le 3.30 del mattino quando siamo arrivati in un piccolo paese chiamato Magistrale, dopo aver impiegato 17 ore di guida no-stop. Trovare una pensione era impossibile, specialmente a questa ora, quindi abbiamo dovuto montare, con riluttanza, la tenda dietro una derelitta capanna della ferrovia, ed abbiamo dormito nelle nostre tute da moto dalle 7 alle 12. E’ stato probabilmente il tragitto più duro fino ad oggi, e difficilmente era un inizio ideale per la nostra avventura nella BAM. Eravamo esausti, il morale era sotto i piedi, ed eravamo nervosi per ciò che ci attendeva.

Finalmente a Severobaikalsk, abbiamo montato le tassellate, visitato il museo della BAM e ci siamo preparati mentalmente ad andare “into the wild”.

Con una scarsa idea di quanto fosse lungo il tragitto per Tynda, abbiamo caricato acqua e noodles, e ci siamo assicurati che i serbatoi fossero pieni. Senza sapere quando avremmo trovato il prossimo benzinaio, i nostri serbatoi “Safari” da 28l erano essenziali. Ho fatto una breve chiamata a mia mamma, Sue, per spiegare che non sarei stato raggiungibile per i prossimi 10 giorni, forse. Sembrava preoccupata, così quando mi ha detto “Ma molti motociclisti percorrono questa strada vero?” ho semplicemente annuito, meglio non dirle che ci sono alcune sezioni della BAM dove perfino un camion 8×8 avrebbe difficoltà a passare, e che c’era più possibilità che vincesse alla lotteria piuttosto che noi trovassimo altri motociclisti lungo la strada.

La Baikal-Amur Magistral, BAM, è una linea ferroviaria che attraversa la Siberia orientale; la costruzione iniziò nel 1930, facendo largo uso di forza lavoro proveniente dai gulag, compresi anche prigionieri di guerra tedeschi e giapponesi; circa 150.000 persone morirono nella sua realizzazione per la durezza del lavoro a quelle condizioni e per la fame, dove solo il 10% dei prigionieri fece ritorno a casa. Nel 1953, a seguito della morte di Stalin, tutta la costruzione della linea si interruppe e la linea fu abbandonata alla natura per più di 20 anni. Comunque, essendo una strategica alternativa alla Transiberiana, specialmente lungo le sezioni vulnerabili vicino al confine cinese, l’interesse nel completarla rimase forte. Nel 1974 il progetto fu ripreso e nel 1991 fu dichiarata terminata.

La BAM “road”, se così si può chiamare, è una pista ad una sola corsia utilizzata per accedere alla stazione durante la sua costruzione e manutenzione. La strada corre da Taishet a Severobaikalsk, procedendo fino al Pacifico a Sovetskaya Gavan. Tynda è un piccolo paese grossomodo nel mezzo di questa, che divide la strada nella metà occidentale ed in quella orientale. Ci sono piccoli villaggi lungo la strada, comunque, molti sono stati abbandonati adesso. Gli insediamenti sono tuttora utilizzati a servizio della ferrovia. E’ difficile capire come possa esistere vita in un luogo così remoto, dove l’unica via di trasporto e spostamento è la BAM. Alcuni posti che abbiamo passato consistevano in soli 1 o 2 blocchi di appartamenti, con un solo negozio che vendeva solo il necessario per la sopravvivenza. Questi posti certamente non esisterebbero senza la BAM.

La parola “strada” non può essere usata. Neanche la parola “pista” o “sentiero” è giusta. In più sezioni il percorso è impraticabile, dove i ponti sono collassati o non sono mai stati neanche finiti. In questi punti l’unico modo di continuare è di percorrere la ferrovia, che è tuttora in uso da enormi treni a vapore. Il tracciato  si snoda attraverso una grande catena montuosa, e fiumi di ogni grandezza tagliano il percorso ad intervalli irregolari, a volte anche ogni 100m. La difficoltà di questi attraversamenti dipende dalla stagione, ed inevitabilmente anche il clima locale gioca un ruolo importante giorno dopo giorno. Gli inverni baltici significano avere in giugno ancora le montagne coperte di neve, e molti dei grandi fiumi sono ancora nel loro processo di decongelamento. Questo rende i paesaggi stupefacenti, ma l’alto livello delle veloci e fredde acque non aiuta nel tentativo di guadare i fiumi con una motocicletta.

Il terreno cambia costantemente. Chilometri di spessi banchi di sabbia diventano rapidamente ghiaia, seguita poi da “piscine” di fango e solchi profondi. La nostra direzione spesso diverge dalla linea ferroviaria, scalando fino a 1000m in altezza sul ripido letto di un fiume. Questi momenti sono divertenti, lottare con la moto contro rocce e sassi, mentre senti i detriti suonare contro il paracoppa. A volte sembra come di trovarsi nel mezzo di una competizione di hill climb, dove tu provi a stare a sedere, a stare in piedi, qualsiasi cosa nel tentativo di alleviare pressione e bilanciare la moto. La salita sembra non fermarsi mai, ed è incredibile che le moto e le gomme sopravvivano. E’ facile prenderci la mano, e solo dio ha voluto che non cadessimo o che le nostre moto si fossero danneggiate seriamente, non realizzo davvero come ne siamo usciti.

Generalmente il tracciato è stretto e delineato da alberi su ogni lato. Occasionalmente ci sono aperture da dove si può vedere la ferrovia, indicando che stai procedendo nella giusta direzione! Ad ogni crinale ti chiedi quale ostacolo starai per affrontare, ed il mio cuore affonda ogni volta che il tracciato si divide. A questo punto una strada va sempre in alto, conducendo ad un ponte in legno marcio, o semplicemente ciò che ne rimane.L’altra strada va verso il basso, portando ad una sorta di guado.

Questo è tipico della BAM road, e senza possibilità di tornare indietro ci sono veramente solo 4 opzioni per proseguire…

TESTO TRADOTTO A CURA DI FRANCESCO RISTORI – ORIGINALMENTE DA WWW.TOUGHMILES.COM

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