Finirai per trovarla la via, se prima hai il coraggio di perderti... T. Terzani

SPECIALE - Il Terremoto, 3 anni dopo.

Il terremoto di Sendai e del Tōhoku del 2011 (東北地方太平洋沖地震 Tōhoku chihō taiheiyō-oki jishin, Terremoto in alto mare della regione di Tōhoku e dell’Oceano Pacifico) si verificò l’11 marzo 2011 al largo della costa della regione di Tōhoku, nel Giappone settentrionale, alle ore 14:46 locali alla profondità di 30 chilometri.

Il sisma, di magnitudo 9,0 (secondo l’USGS), con epicentro in mare e con successivo tsunami, è a tutt’oggi il più potente mai misurato in Giappone e il settimo a livello mondiale.

I terribili accadimenti dell’11 marzo mi scossero non poco, vedere un paese così avanzato impotente di fronte alla violenza degli eventi naturali è stato come capire che possiamo essere moderni quanto vogliamo, ma alla natura basterà sempre un momento per spazzarci via.

L’occasione per approfondire ogni aspetto legato al post-disastro è proprio questo viaggio, dove con la libertà delle due ruote, e grazie ai contatti LAILAC potrò scoprire ogni landa per sondare il terreno 3 anni e mezzo dopo.

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Il terremoto, il più grave mai registrato in Giappone, in sé non ha provocato la maggior parte dei danni materiali ed umani.

In seguito alla scossa si è generato uno tsunami con onde alte oltre 10 metri che hanno raggiunto una velocità di circa 750 km/h.

Le coste giapponesi più colpite dalle onde anomale sono state quella della prefettura di Iwate, dove si è registrata l’onda più alta, abbattutasi nelle vicinanze della città di Miyako, che ha raggiunto la straordinaria altezza di 40,5 metri, e quella della prefettura di Miyagi, che ha subito i maggiori danni, con automobili, edifici, navi e treni travolti dalle onde.

L’arrivo al mare, avvenuto nei pressi di Ofunato, è di per sé sconvolgente: mi trovo di fronte a delle gigantesche barriere fatte di riporti di terra, saranno alte almeno 10m, e si estendono per migliaia di metri quadrati.

Le strutture per il movimento terra si estendono per centinaia di metri in un’intricata rete di tunnel, addirittura c’è un ponte strallato che dalla collina porta terra oltre un braccio di mare che si insinua nell’entroterra.

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Per approfondimento, qui avete la possibilità di vedere con i miei occhi l’impatto con la costa.

La zona  costiera è un saliscendi continuo, e continuamente è possibile notare cartelli che denotano l’inizio e la fine della sezione inondata dallo Tsunami.

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La giornata grigia accompagna il clima di raccoglimento che induce involontariamente la vista di questa distruzione.

E’ impressionante osservare come in altura le case siano perfette e pochi metri più in basso ci sia il deserto, tutto spazzato via dall’onda anomala.

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Ogni tanto incontro delle deviazioni stradali, il GPS non sa più come ricalcolare la strada, mi trovo in mezzo al niente secondo la cartografia del Garmin; molte strade di servizio sono appena state realizzate per sopperire a quelle che adesso…non esistono più!

Parte della viabilità è stata inghiottita dal mare, così come parte della rete ferroviaria, interrotta a tratti.

E così capita di imbattersi in strade senza sfondo, che terminano in una voragine o nel mare.

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I paesaggi che si susseguono mettono i brividi, intere colline sbancate, spogliate da ogni cosa, e poi mutilate per costruire barriere e plasmare di nuovo la costa, scomparsa dopo il ritiro dell’onda.

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Dove c’erano ponti, adesso c’è il mare…

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Banchine in cemento armato, strutture in metallo, un groviglio di materiali contorti in posizioni che ricordano uno strazio, quasi un grido di dolore.

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E prefabbricati sbattuti lontano da dove erano situati in precedenza, in posizioni innaturali.

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Mentre sfreccio sull’asfalto umido, sotto qualche lacrima di pioggia, sulla destra scorgo strutture temporanee sistemate in ordine preciso dietro ad una rete metallica: sono le case degli sfollati, che passeranno almeno un’altro freddo inverno dentro a queste costruzioni precarie.

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Non ho mai visto un dispiegamento di mezzi tanto grande, solo nella giornata di oggi avrò visto centinaia tra bulldozer, escavatori, sistemi di trasporto e movimento terra. I giapponesi, quando fanno, fanno sul serio.

Arrivo a Minamisouma.

Qui ho uno degli appuntamenti più importanti in Giappone, una sosta conoscitiva per aggiornare le conoscenze a proposito dei danni da radiazione nucleare.

Minamisouma è infatti il comune abitabile più vicino alla centrale nucleare Fukushima Dai-ichi, i cui reattori 1, 2, 3 e 4 sono collassati a poca distanza dai terribili avvenimenti precedenti, quasi a voler infierire come non fosse abbastanza, come una “terza piaga” su un territorio già pesantemente colpito.

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I reattori attivi a Fukushima I erano i n. 1, 2 e 3, mentre altri tre erano stati spenti per manutenzione.

Questi si sono disattivati automaticamente dopo la scossa, ma i sistemi di raffreddamento sono comunque risultati danneggiati, causando un surriscaldamento incontrollato. Il livello dell’acqua negli impianti è sceso sotto i livelli minimi di guardia in tutti e due i siti, e pertanto è stata dichiarata l’emergenza nucleare (la prima nella storia del Giappone).

Alle 15:40 (6:40 UTC) dell’11 marzo il reattore n. 1 di Fukushima I ha subito la fusione delle barre di combustibile e un’esplosione visibile anche dall’esterno, che ha provocato il crollo di parte delle strutture esterne della centrale.

In un’ora sarebbero state rilasciate più radiazioni che nell’arco di un anno.

Il 12 marzo si è verificato lo stesso problema al reattore n. 3 della stessa centrale.

Per contenere il surriscaldamento è stato autorizzato il rilascio controllato di vapore e si è proceduto all’irrorazione dei reattori con acqua di mare e acido borico (capace di assorbire neutroni e rallentare la reazione del combustibile).

I gas dispersi dalle esplosioni e dal rilascio di vapore hanno diffuso nell’atmosfera ioni radioattivi di iodio 131.

La successiva evacuazione ha interessato 110 000 persone nel raggio di 30 chilometri dall’impianto di Fukushima I.

Il 14 marzo si è interrotto l’impianto di raffreddamento del reattore n. 2, subito irrorato con acqua marina e boro.

Nella notte del 15 marzo è avvenuta un’esplosione, con successivo incendio, al reattore n. 4: anche se spento, il guasto all’impianto di raffreddamento ha impedito di contenere il surriscaldamento dovuto al decadimento naturale del combustibile nucleare, e questo ha portato alla vaporizzazione dell’acqua della piscina di soppressione in cui è immerso il reattore e alla successiva reazione tra vapore bollente e lo zirconio che riveste le barre di combustibile; l’acqua attorno al reattore si è prosciugata portando il surriscaldamento fuori controllo.

Gli incendi e la radioattività hanno reso problematico l’accesso negli impianti dei tecnici che cercavano di riprendere il controllo dei reattori.

Tuttavia, i contenitori primari (vessel) dei reattori interessati dagli incidenti (n. 1, 2, 3 e 4) hanno resistito alle esplosioni e al surriscaldamento.

Gli avvenimenti sono stati classificati dall’Agenzia per la sicurezza nucleare e industriale del Giappone al grado 7 della scala INES, il massimo, a pari livello con il Disastro di Černobyl’.

Con Hoshimi san ho per la prima volta occasione di osservare queste zone, entro un raggio compreso tra 10 e 20km dalla centrale.

Cominciamo a girovagare a bordo della sua Prius.

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Visitiamo la città di Odaka, a pochi km da Minamisouma.

Non è abitabile: è una città fantasma. Mette un po’ i brividi passeggiare tra le strade di questo paese, tutte le serrande sono chiuse, per strada non c’è niente e nessuno.

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Ogni tanto si vede qualche traccia di umanità, qualche fiore ancora mantenuto da chissà chi, qualche persona che torna qui a raccogliere macerie o a tagliare l’erba attorno alla propria casa, vuota, con la speranza che un giorno tornerà abitabile.

Qui si può lavorare ma non vivere.

E nel frattempo, attorno alle abitazioni di chi ha perso la speranza, la natura si riappropria di quello che era suo da sempre.

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Edifici pericolanti si moltiplicano, ma la manodopera giapponese è efficiente e molti di essi sono già stati demoliti o messi in sicurezza.

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Il paesaggio è quasi da film. Incute irrequietezza.

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Fuori dal centro, più che ci si avvicina alla costa e più si vedono edifici collassati o con gravi danni.

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Ma la cosa più impressionante è che spesso non si vede niente, solo una distesa verde che una volta era punteggiata da centinaia di edifici. Ogni tanto un cartello ricorda anche quante case sono state spazzate via nella zona.

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Case strappate alle loro basi, esili fondazioni sono ciò che rimane di quello che vi era un tempo.

Case in legno perlopiù.

La cosa impressionante è che quelle in cemento armato o muratura invece sono sopravvissute, e spesso costituiscono puntini in mezzo al nulla.

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Pali della luce ancora contorti, a ricordarci la direzione presa dall’onda l’11 marzo.

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Attività chiuse quello stesso giorno, e mai più riaperte.

Spesso anche in zone abitabili; il personale dopo essere fuggito, dopo aver magari perso la casa, non è più tornato, e molti sono i negozi che non hanno potuto riaprire.

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L’interessante gita proposta da Hoshimi si chiude con un grande senso di irrequietezza e con lo stomaco chiuso; adesso che sono da Ohara san non riesco comunque a tranquillizzarmi: non è semplice, quando mi mostra alcuni filmati amatoriali del giorno dello tsunami, trattenere una certa inquietudine, osservando la gigantesca onda che in pochi minuti travolge e distrugge capannoni e case, gli impegni di una vita – qui al porto di Minamisoma l’onda ha raggiunto i 20-30m.

Anche Ohara san si propone di portarmi in giro in zona, stavolta andiamo verso la centrale Dai-ichi, vogliono mostrarmi il punto dove la strada si interrompe, a circa 10km dalla centrale.

I controlli sono strettissimi, solo i più strettamente autorizzati possono passare; lunedì 15 settembre la strada riaprirà ai mezzi, ma non tutti, l’eccezione la fanno le moto, e non capisco perché…la moto è un mezzo più veloce dell’auto, dovrebbe essere più sicuro transitare in moto dato che il tempo di esposizione sarebbe minore.

Non avevo tenuto conto del fatto che la moto è pienamente esposta all’aria, e la polvere radioattiva, ancora presente in quantità nell’aria, potrebbe essere molto dannosa.

Le auto, ad abitacolo sigillato e con l’aria chiusa, potranno passare.

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Spuntano dal niente, le cattedrali del deserto.

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Riprendiamo il cammino tornando a nord passando per la strada principale.

Ai lati, sia verso ovest che verso est, in direzione del mare, le strade sono tutte sbarrate, con dispositivi più o meno definitivi, ma vedere un guardrail piantato nel cemento e nell’asfalto non fa certo presagire che quella strada riaprirà presto.

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Anche qui i controlli sono severissimi, e se non c’è alcun dispositivo di protezione, un poliziotto controlla l’ingresso del traffico, sempre.

Anche stavolta non riusciamo a passare, neanche cercando di spacciarmi per una specie di inviato italiano in missione per un reportage.

Dietro di lui, il nulla, di nuovo, una città fantasma.

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Le attività chiuse si moltiplicano, a volte sono intonse, né colpite dallo tsunami né dal terremoto, ma non c’è forza lavoro, e così gli interni appaiono spesso disordinati, oppure completamente vuoti.

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Il mare, adesso così calmo, sembra quasi impossibile che questo possa generare una tale forza da spazzare via ogni forma di antropizzazione entro 2 km dalla costa.

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Ci fermiamo in mezzo alla pianura, a pochi metri dalla costa: qui viveva la nonna di Ohara san, la sua casetta in legno era in prima fila quando lo tsunami è arrivato.

Adesso?

Solo fitta vegetazione, nient’altro.

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Non è inusuale trovare luoghi di raccoglimento lungo le località costiere, piccoli santuari buddisti con lapidi in cui sono incisi i nomi di coloro che sono venuti a mancare.

Molti di essi erano amici di Ohara san.

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Solo a Minamisoma sono morte 800 persone.

Lo tsunami se ne è portate via quasi 15.000.

Perché? Perché, chiedo?

Ohara san risponde, con un briciolo di risentimento, che lo tsunami è una cosa a cui sono abituati a far fronte, di solito, dopo ogni terremoto di discreta intensità con epicentro nel mare arriva un’onda di modeste dimensioni.

Anche l’11 marzo doveva essere così, nessun allarme.

Quando però i sismologi e gli oceanografi hanno notato l’anomalia che ha generato onde fino a 40m a velocità pazzesche (fino a 750km/h) il tempo era troppo poco per diramare un allarme tempestivo.

Dal momento dell’allerta all’impatto sulle coste i giapponesi hanno avuto soltanto mezz’ora di tempo per mettersi in salvo.

Questa è la causa di tanti morti.

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Ringrazio Ohara san per aver fatto un po’ di luce in più su quelli che per me erano misteri, rendendo più comprensibile capire come un paese così tecnologico e con tutti gli strumenti più avanzati per prevedere situazioni del genere abbia avuto tanta difficoltà.

La mia ultima giornata la passerò in compagnia di Ohara san, che lavora in Ospedale, anche se in ufficio e non nei vari ambulatori; questo è comunque interessante dal punto di vista delle patologie post-radiazione, sicuramente ne saprà qualcosa.

Come già è stato sottolineato poco sopra, durante il raffreddamento con acido borico dei reattori è stato liberato Iodio-131 nell’atmosfera.

Lo Iodio-131 è un grave pericolo a breve termine, dato che ha una emivita di 8 giorni, decadendo in modo beta (90%) e gamma (10%). Si concentra nella tiroide, dove può provocare diversi tipi di tumore e altri disturbi come il morbo di Basedow e tiroiditi autoimmuni. Comunque è un organo asportabile grazie alla chirurgia radicale e alla terapia con il radioiodio.

Chiedo a Ogawa san se ci sono state ripercussioni sulla cittadinanza in seguito ai fatti della centrale, ma con estrema sicurezza mi risponde che no, nessuno è stato ricoverato con alcuna patologia riconducibile alle radiazioni, eccetto ovviamente chi si trovava nelle immediate vicinanze nei momenti critici.

Gli credo sulla parola, i giapponesi difficilmente mentono e sembra molto sicuro del fatto suo.

Durante la nostra “gita” incontriamo uno strumento che ancora non ero riuscito a capire cosa fosse, nonostante lo avessi visto già molte volte.

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Si tratta di un rilevatore geiger alimentato da pannello solare: questo segnala 0.353 microSievert/ora, un valore trascurabile.

In un anno, il valore di radiazione assorbita sarà di circa 3 milliSievert, ovvero la stessa quantità assorbita da un italiano.

Questi dispositivi mi rassicurano, si trovano spesso e sono una garanzia per il popolo giapponese.

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Ci spostiamo verso la montagna.

Minamisouma dall’alto, la centrale a carbone sullo sfondo.

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Proseguiamo il giro, nelle campagne attorno alla città, e qui salta fuori un altro problema, forse il più grave attualmente.

Le ricadute hanno provocato il deposito di polvere radioattiva sul territorio, che viene sistematicamente pulito tramite l’asportazione dello strato superficiale del terreno.

Questo viene poi depositato in sacchettoni neri che si trovano spesso ammassati ai lati della strada, in attesa di essere piazzati da qualche parte: ovviamente nessuno li vuole vicino!

Ogni tanto troviamo qualche sito di stoccaggio, non capisco se sarà temporaneo o definitivo, funziona come una discarica: un telo di plastica viene posto a contatto col terreno, su di questo vengono poggiati i sacchettoni, sigillati con altro telo di plastica e poi coperti con terra.

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La precisione dei giapponesi impone di apporre cartelli contenenti notizie a proposito del sito di stoccaggio, che non riesco a capire in toto, ma c’è una dicitura facilmente comprensibile, ovvero quella che riguarda l’esposizione alle radiazioni, che qui è triplicata rispetto alle zone cittadine: 1.12 microSievert/ora.

Se una persona vivesse qui assumerebbe circa 9 milliSievert/anno, equivalenti alla dose di radiazione assorbita durante una scintigrafia.

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Non troppo lontano da questi siti si trovano le case temporanee per gli sfollati, è una distesa senza fine a volte, ce ne sono a centinaia.

Alcuni dei residenti potranno avere una casa nuova il prossimo anno, edilizia di base dal costo agevolato grazie all’intervento locale e del governo centrale.

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Mi rimetto in moto per dirigermi verso Urabandai.

Cerco di addentrarmi nell’entroterra, ma pare una missione impossibile.

Al primo tentativo trovo un cartello che avverte a proposito di qualcosa ad 8km da esso…non riesco a capire cosa anche se intuisco che ci sarà qualche problema, proseguo comunque.

Puntualmente 8km dopo trovo la strada sbarrata.

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Intuisco che sia una zona dove i venti siano spirati portando polvere radioattiva, non ancora bonificata, perciò l’accesso è vietato.

Provo nuovamente a prendere direzione ovest da più a sud, dopo un chilometro trovo lo stesso cartello; e ora? Se tutte le strade che provo sono così non arriverò mai a Urabandai…

Mi sento nuovamente come sul set di un film, quelli catastrofici, dove i personaggi cercano di fuggire dalla città contaminata e tutte le strade sono sbarrate.

Chiedo a due signori che si trovano nei paraggi, e finalmente riesco a capire quale sia la strada da seguire, devo andare verso Iitate, un villaggio fantasma anch’esso, non abitabile ma transitabile.

Vicino ad esso trovo un centro di stoccaggio immenso.

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I sacchi neri saranno migliaia e migliaia.

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Mi lascio alle spalle Minamisouma.

E tante amicizie.

Con un’idea più chiara di quello che è successo, e con la percezione di un popolo che nonostante sia già stato colpito da disastri nucleari, terremoti e maremoti, trova sempre la forza di rimettersi in piedi organizzandosi perfettamente e lavorando sodo fin da subito.

La burocrazia è aggirata in qualche modo con qualche permesso speciale, presumo, perché i lavori procedono senza sosta e senza problemi con autorizzazioni di sorta.

Giapponesi, un grande popolo.

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Categories: 2014, Racconti di viaggio

Nel cuore del Giappone

Riprendiamo il racconto da dove ero rimasto, cercando di dettagliarlo maggiormente.

Mi trovo in un ristorante italiano adesso, e ci starò per una settimana, lavorando in cambio di vitto ed alloggio; il tempo libero non manca e ne approfitterò per regalarvi qualche parola in più sulla mia esperienza nel cuore del Giappone.

Da Morioka a Minamisouma la strada è stata lunga, tremendamente lunga, in Giappone, e specialmente nell’Honshu, fare tanti km è un’impresa, e non se ne riescono a fare mai più di 400 in una giornata, a meno di infrangere tutte le norme del codice della strada, senza contare poi che alle 6 è già buio.

Secondo il navigatore erano 350km, ma io ho allungato di proposito per osservare meglio la costa del Tohoku colpita dallo Tsunami (a riguardo ho scritto uno speciale che troverete in seguito a questo articolo), e così ne ho contati 390 al termine della giornata.

La sera, all’arrivo, Ohara san mi fa capire che la prima notte la passerò al tempio buddista di Hoshimi san: mi accompagna in macchina, meglio così, è già buio e il GPS forse non ha il waypoint nella corretta posizione.

Come arrivo trovo anche Akiko, che tramite Ogawa san aveva saputo del mio arrivo a Minamisouma e su facebook mi aveva promesso di farsi viva, e così ecco che mi saluta regalandomi un seti di “osembe”, snack giapponesi; io non ho niente da darle, e così dovrò impegnarmi a farle avere qualcosa prima di ripartire.

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Gli snack in Giappone hanno taglia…minuscola!!!

2 biscottini da pochi grammi l’uno confezionati perfettamente in un involucro invitante: qua in Giappone tutto è confezionato, confezioni dentro le confezioni, dentro a pacchetti più grossi…ma poi arrivi a scartare tutti i pacchettini che in fondo non ci rimane niente…ahhhhh!!!

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Andiamo all’Onsen, terme giapponesi (di nuovo!); sono in città, non credo che la sorgente sia termale, anche perché l’acqua odora un po’ di cloro.

A cena ci rechiamo presso un ristorante italiano, “Mario” come mio babbo, e ci divoriamo un set di tre primi, di cui uno “alla giapponese”, ovvero spaghetti con daikon (rafano giapponese) alga nori e tonno…beh, avrà infranto non so quante leggi della cucina italiana, ma non era poi così male!

E’ ora di dormire, la sveglia è puntata per le 6 di mattina, ora della preghiera buddista.

Al mattino ecco che mi si presenta il tempio Ganokuji in tutto il suo splendore: 1200 anni di storia, almeno all’esterno, mentre all’interno è stato ristrutturato recentemente da degli abili falegnami che hanno sede qua vicino.

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L’architettura della nuova porta di ingresso ricalca quella del vecchio tempio, e rimango esterrefatto dagli incastri, tutti a secco, del legname…è qualcosa di incredibile!

La sera precedente ho avuto modo di studiare anche qualche elaborato tecnico del progetto di questa porta, impressionante.

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Il tempio è situato al limitare del centro città; silenzioso, circondato dalla natura, sembra di vivere in un mondo a parte.

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Prima di pranzo Hoshimi san mi porta a fare un giro nella zona colpita dallo tsunami, mostrandomi ciò che è stato delle circostanze; terribile.

L’approfondimento, nell’articolo seguente.

A pranzo, dopo qualche km a bordo della sua Prius (qua in Giappone quasi ogni famiglia ne ha una, le auto ibride sono in voga) ci fermiamo presso un ristorantino che dall’esterno sembra una casetta bianco candido.

Anche qui si devono lasciare le scarpe all’ingresso, e ci si siede al tavolo stando praticamente in terra…al centro del tavolo c’è poi una “fossa” per riporre le gambe in posizione “occidentale”.

Hoshimi san ordina un “setto” (set) comprendente

  • Tempura di ebi (gambero), patata dolce, melanzana e zucca
  • Soba e salsa per soba
  • Sashimi (pesce crudo sfilettato) con riso e tamago (frittata)
  • Tsukemono (una sorta di marinatura) di daikon

  DSC03212 Fantastico, una scorpacciata da paura! E tutto ottimo, di qualità superba! DSC03213

Una nota esilarante: i soba, ovvero quella sorta di spaghetti in secondo piano, si mangiano intingendoli nella salsa soba (nascosta dal piattino dove sosta il porro tagliato a dischetti) e poi, prendendoli con le bacchette, bisogna portarli alla bocca e…risucchiare più forte che si può!!

Nel ristorante è un’eco continua di rumori strani, che da noi sarebbero volgarissimi e maleducati, qui è invece la norma, anzi, più forte risucchi e più gradisci.

Io ci provo, ma mi sbrodolo tutto mentre tento di imitarli, con i soba che penzolano da destra a sinistra appesi alle mie labbra…mentre cerco di non ridere per come sono impacciato e per come gli altri attorno emettano suoni così potenti mentre mangiano!!

Proseguiamo il giro sulla Toyota, e visitiamo la falegnameria dove si produce la carpenteria del tempio (che tra l’altro fornisce anche il tempio Kougenji di Hokkaido).

E’ uno spettacolo, nel laboratorio si entra senza scarpe (si, anche qui!!!) ed i falegnami sono di una meticolosità palpabile a chilometri di distanza, con una precisione nelle mani da far invidia ad un calibro.

E gli strumenti sembrano intonsi, mai usati, in ordine perfetto sul carrello.

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Torniamo al tempio, il tempo di vedere qualche foto insieme ad Hoshimi san che arriva Ohara san a prelevarmi per scortarmi a casa sua, dove starò 2 notti. Hoshimi san mi è piaciuto, una persona silenziosa, dal gran contegno, dai modi gentili.

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Durante il mio soggiorno al tempio avevo udito qualcosa che mi riportava la mente al tempo dei Samurai in Giappone, a proposito di armature, rievocazioni, storie…il bello è che proprio una di queste armature (originali, non cose da turisti!) l’avrei indossata io!!!

Ohara san ha uno zio che si occupa della vestizione dei cavalieri (pardon, Samurai) durante la rievocazione storica “Minamisoma Somanomaoai” che si tiene a luglio, dove decine di Samurai sfilano lungo la strada principale per poi darsi appuntamento all’ippodromo per ottenere il titolo annuale.

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Il pomeriggio tardi ci avviamo a casa di questo zio, e già mi attendono con tutti gli strumenti necessari a farmi sentire sulle spalle tutto il peso di un vero Samurai! (l’armatura è in effetti molto pesante!)

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Il corpetto è in lamina di ferro, mi va un po’ stretto, i giapponesi hanno corpi più esili degli europei.

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Dopo aver indossato tutte le protezioni necessarie (parastinchi, maglia di ferro sulle braccia, corpetto, gonnellino e casco), e dopo aver decorato il casco con quello che pare un demone giapponese, sono pronto per la sessione di foto…wow, fantastico!

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Da piccolo ero appassionato del cartone animato “I 5 Samurai” ed adesso che assomiglio ad uno di loro mi sento gasato!

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Il samurai (侍) era un militare del Giappone feudale, appartenente ad una delle due caste aristocratiche giapponesi, quella dei guerrieri.

Il nome deriva sicuramente da un verbo, saburau, che significa servire o tenersi a lato e letteralmente significa colui che serve.

Un termine più appropriato sarebbe bushi (武士, letteralmente: bu significa “marziale”; shi è l’unione tra il tratto basso orizzontale che indica il numero 1 e la croce il 10: l’unione di questi due segni rappresenta la conoscenza, quindi colui che discerne tutto, l’illuminato) che risale al periodo Edo.

Attualmente il termine viene usato per indicare proprio la nobiltà guerriera.

I samurai che non servivano un daimyō perché era morto o perché ne avevano perso il favore, o la fiducia, erano chiamati rōnin, letteralmente “uomo onda”, che intende libero da vincoli, ma assume sempre un significato dispregiativo.

I samurai costituivano una casta colta, che oltre alle arti marziali, direttamente connesse con la loro professione, praticava arti zen come il cha no yu o lo shodō.

Durante l’era Tokugawa persero gradualmente la loro funzione militare divenendo dei semplici Rōnin che spesso si abbandonavano a saccheggi e barbarie.

Verso la fine del periodo Edo, i samurai erano essenzialmente designati come i burocrati al servizio dello shōgun o di un daimyō, e la loro spada veniva usata soltanto per scopi cerimoniali, per sottolineare la loro appartenenza di casta.

Con il Rinnovamento Meiji (tardo XIX secolo) la classe dei samurai fu abolita in favore di un esercito nazionale in stile occidentale.

Ciò nonostante il bushidō, rigido codice d’onore dei samurai, è sopravvissuto ed è ancora, nella società giapponese odierna, un nucleo di principi morali e di comportamento simile al ruolo svolto dai principi etici religiosi nelle società occidentali attuali.

Affascinante, la frammistione di principi rigidi e tradizioni forti come quelle del bushido e del samurai, ed il mondo giapponese moderno, così diverso e “fantascientifico”.

Torniamo a casa, una gran bella casa su due piani, recente, pulita e di buon gusto.

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La Madre di Yoshihiro ha preparato un’ottima cena giapponese a base di…troppe cose!!!

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Sulla tavola campeggia di tutto, dal miso al riso, dal sashimi allo tsukemono, dall’oden al toufu…è un’esplosione di sapori!

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Cerchiamo di scoprire la password della wifi, sembra una missione impossibile e così decidiamo di rimandare al giorno seguente; approfitto per dormire qualche ora in più appisolandomi presto.

La mattina riesco a vedere, seppur nascosta dalle nuvole, la mia prima alba giapponese: qui la luce comincia a comparire da dietro l’orizzonte già prima delle 5 del mattino!

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Appena alzato, la signora Ohara mi fa trovare in tavola, già pronta, la cena.

No, un momento…la colazione…la colazione??

Sembra così simile ad una qualsiasi cena/pranzo!!!

In Giappone per colazione si mangiano le stesse cose del pranzo o della cena; ahhh, quanto mi manca la colazione con biscotti, cereali, yogurt…e la mia dose giornaliera di zuccheri!!

Comunque, tutto ottimo!

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In mattinata facciamo un altro giro verso la costa, approfondendo il lato “marino”, dopo aver visionato alcuni video amatoriali a proposito dell’onda anomala generata il giorno del terremoto.

Prima di partire per la ricognizione mi chiedono se per pranzo mi andasse del sushi…gli faccio intendere che…”ma che domande sono, certo che si!!!”

E così per pranzo mi trovo di fronte a questa meraviglia…

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Un delizioso assortimento di sushi di cappesante, gamberi, granchio, ikura (uova di salmone), tonno, salmone etc etc…una mangiata da ricordare!

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Pomeriggio libero: il padre di Yoshihiro ci saluta (scusandosi!) per andare ad una cena con i vecchi compagni di classe, ed io mi rilasso sul divano mentre la signora Ohara non fa che continuare a portarmi succhi di frutta, frutta a fette, osembe, gelato…e va a finire che è ora di cena, oggi non ho mai interrotto l’attività masticatoria!!

Ci ritroviamo al ristorante di okonomiyaki con Akiko, suo marito, Ogawa san e Ohara san che mi ha accompagnato.

E’ ganzissimo: c’è una piastra centrale che occupa gran parte del tavolo, e dopo ordinazioni varie cominciano ad arrivare ingredienti freschi pronti per essere mescolati e posati sulla piastra.

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Questo ad esempio è un okonomiyaki, con pastella, cavolo e carne se non ricordo male, ed una volta pronto si guarnisce con salsa per okonomiyaki (molto simile alla salsa per tonkatsu), nori in polvere e katsuoboshi in polvere (praticamente pesce secco).

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Wow, che mangiata!

Tutti hanno bevuto un po’ troppo, così il marito di Akiko torna a casa in bici e Ohara san chiama un tassista per farsi guidare la macchina fino a casa…accidenti, gente seria i giapponesi, complimenti!

La mattina seguente Ogawa san arriva per portarmi al suo covo, mi sento più nomade adesso di quando ero in Mongolia, eh eh!

Saluto la famiglia Ohara, gentilissima e super premurosa, li ricorderò sempre con affetto e spero di poter tornare a salutarli.

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Con Ogawa san facciamo un giro in auto con direzione museo di storia di Minamisouma, dove vengono esaltate le emergenze naturali e storiche della città, in special modo la tradizione samurai e la rievocazione di luglio.

Ma la parte che più mi attrae è il parchetto tutto attorno.

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E’ ora di pranzo.

Non si fa che parlare di cibo, vero?

Beh, qua è tutto “nuovo” per me, anche se già conoscevo gran parte della cucina giapponese più famosa.

Oggi tocca al tonkatsu…mmm, è delizioso, fuori la croccantezza del panko e dentro la delicatezza della cotoletta di maiale.

Contorno di riso, miso, tsukemono di daikon e cavolo.

Tutto per 730Yen, praticamente neanche 6€, e sono pieno!

Per quanto riguarda il cibo, il Giappone è molto meno costoso dell’Italia, devo ammetterlo.

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Fine della giornata in auto, girovagando tra colline e mare, sempre alla ricerca del dettaglio che sbroglia la matassa di dubbi attorno al disastro dello Tsunami e del collasso della centrale Fukushima Dai-ichi.

Ma per parlare di questo ci sarà tempo nello speciale seguente.

Stasera tocca a me: mi è stato affidato il compito di preparare qualcosa di italiano, ok!

Qualcuno butta là l’ipotesi del risotto e così spolvero una ricetta che spesso viene proposta a casa mia dalla mamma – risotto alla zucca!

La preparazione non è semplice perché mancano alcuni ingredienti, quali parmigiano e riso per risotto (in Giappone ne esiste solo un tipo, sembra, a grano corto, e non è il top per il risotto); comunque no problem, con qualche adattamento riesco a tirar fuori un buon risotto all’occhio ed al palato!

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Ogni volta che mangio italiano sento che i sapori sono cambiati dall’ultima volta, mesi fa in Italia, ed i piatti sono molto più gustosi, un delirio per le papille gustative!

Mr Ogawa e Mr Ohara apprezzano ed io vado fiero di questa italianità.

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Purtroppo ogni storia ha un termine e la mia qui a Minamisouma è giunta a tal punto.

Le amicizie accumulate qui sono state tante, e tutti mi hanno accolto in casa loro come li conoscessi da molto, come vecchi amici, sono sbalordito, perché mi aspettavo il contrario dai giapponesi, riservati, timidi e un po’ timorosi degli estranei.

Akiko e Ohara san mi svelano che il mio carattere, il mio sorriso e la mia positività piacciono ai giapponesi, perciò nessuno ha mai difficoltà a darmi una mano, e mi confidano che questa sarà una caratteristica fondamentale quando sarò a Tokyo in cerca di impiego: sono contento per queste parole, mi mettono molto di buonumore.

Grazie amici!

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I km che mi separano da Mrs Shimura sono pochi, sui 160 circa, ne approfitto per fare una breve deviazione al Goshiki Numa Lake, uno scorcio in mezzo alla verdura del bosco dove si estende un laghetto carinissimo; peccato per la giornata non proprio bellissima!

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Sono curioso di vedere come sarà questo ristorante.

Quale ristorante??

Già, ancora non l’ho spiegato: starò una settimana da Shimura san, che gestisce un ristorante tutto da sola, e per giunta il ristorante è italiano!

In cambio di vitto ed alloggio lavorerò per lei come contadino, inserviente, cameriere, cuoco, lavapiatti…insomma mi darò da fare per rendere a Shimura san questi giorni un po’ meno pesanti e meno solitari (lavora qui da sola, e riesce a fare tutto questo a 76 anni, ha un’energia che a volte neanche io…!), per godermi la pace del lago Hibara e per apprendere qualcosa di più dalla frammistione di tradizione italiana ed atmosfera giapponese.

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Categories: 2014, Racconti di viaggio

I primi passi nell'Honshu

Honshu!

Dopo 3h e 40 (e non 3h39, né 3h41) la nave arriva ad Aomori…precisa come i trasporti pubblici italiani.

Beh, no..un po’ più precisa.

La strada non è scorrevole come nell’Hokkaido e me ne accorgo subito: la densità dell’abitato è maggiore, le città hanno semafori a non finire.

E le auto rispettano tutti i benedetti limiti/divieti stradali!

Si, proprio così, nessuno sfora i 40kmh in città ed i 50/60kmh in extraurbano.

In questo modo diventa difficile per me rispettare le tempistiche fornite ai miei amici giapponesi, così quando c’è un po’ di strada libera cerco di forzare, spesso è divertente guidare tra le curve delle strade di campagna, l’asfalto è sempre pulito e molto sicuro in termini di grip.

Ogni tanto poi si trovano posticini come questo, Onsen tradizionali e laghetti di acque sorgive calde e sulfuree.

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Dopo circa 3h e mezzo di guida arrivo a Morioka, città del wanko soba e del reimen.

Suzuki san sente il rumore della moto e si affaccia, un po’ preoccupata perché in ritardo di circa mezz’ora.

Il suo benvenuto non si fa attendere, in casa mi aspetta una cameretta in stile occidentale, un bagno caldo, ed appena fuori dall’”ofuro” ecco che la cena è pronta: tonkatsu! Cotoletta di maiale con cavolo, pomodoro, salsa tonkatsu (la famosa salsa bulldog) e riso. Cosa potrei chiedere di più!?

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Spero di farmi una bella dormita adesso, ma la signora Suzuki programma la sveglia alle 6.30 per andare al mercato…uff, farò questo sforzo!

La mattina scopro con piacere che la levataccia è valsa la pena, perché al mercato si acquista frutta e verdura ad un prezzo molto basso rispetto al supermercato, forse 3-4 volte meno. La cattiva notizia è appunto che apre dalle 4 alle 7 di mattina!!!

Torniamo a casa e poco prima di pranzo sua sorella passa a prendermi con suo marito e Naruyoshi, un ospite speciale, viaggiatore anche lui, 23 anni da Osaka, in giro in bicicletta attraverso il Giappone…ai giapponesi piace viaggiare!

Andiamo verso l’Iwate yama (montagna), anche chiamato Iwate-san, come fosse una persona: i giapponesi chiamano le montagne con titoli di rispetto, ad esaltarne la sacralità.

A dire il vero non è proprio una montagna, ma un vulcano, che 400 anni fa eruttò una gran quantità di magma, che ancora oggi è visibile in una lingua di 1kmx3km.

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Qualche albero tenta la vita in mezzo al magma.

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Visitiamo il centro dell’artigianato di Morioka, e per pranzo, sorpresa, andiamo al ristorante di reimen dove noi stessi saremo i “cuochi”, preparando il reimen (ramen freddo, di provenienza coreana) con le nostre mani.

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Questo dovrebbe essere l’aspetto finale: i giapponesi sono maestri nel realizzare versioni in resina del prodotto finale!

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Pronti via si parte!

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La “maestra”, molto puntigliosa..

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Il taglio e la bollitura.

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Lavaggio in acqua fredda.

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Niente male alla fine, buono, anche se il cocomero…mah!!

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E’ la volta del dessert, e ci dirigiamo verso un negozietto che produce all’istante dei nambu sembe, praticamente dei biscotti con all’interno noccioline.

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Non resisto, ne voglio fare uno anche io!!

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Infine, il cimitero di Morioka, dove è seppellito attualmente il primo premier giapponese, eletto nel 1918.

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La sera, sorpresa!

Tempura!!

La tipica frittura giapponese, preparata con pastella apposita oppure con farina e uova, impasto non ben mescolato (è una regola) e freddo.

Con tanto di patata dolce, zucca, zucchine, funghi, peperoncini e “ebi” (gamberi).

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Itadakimasu! Buon appetito!

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Non contenti, ci siamo fatti anche dei gyoza, ravioli di carne e verdure, con diverse salse, tra cui soia, aceto etc..

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Ohayoo gozaimasu! Buongiorno!

Naruyoshi è di Osaka e fiero della cucina della sua città ci mostra come si cucinano gli okonomiyaki, una specie di frittata con cavolo e carne, oppure pesce.

Ottimi, li adoro! (anche se per colazione una bella fetta di pane e marmellata ancora mi manca!!!)

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Siamo agli sgoccioli, il tempo con Masako è passato velocemente, si è presa cura di me come fossi suo nipote, la mia “zia” giapponese!

La sua casa è super accogliente e mi mancherà!

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Ma prima c’è sempre tempo per scherzare e provare qualche strumento giapponese antico di cui non ricordo il nome. In una stanzetta con tatami dove solitamente Masako si reca per pregare per i suoi cari, offrendo anche del cibo come prevede il rituale buddista.

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Colazione…toufu, maiale in salsa, riso, pesce in salsa d’aceto, zuppa di pesce, verdure sottaceto. Voglio il dolceeeeeeeeeee!!!

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Grazie Suzuki san, grazie di tutto, è stato un piacere, e spero di rivederti presto!

Con dispiacere dopo qualche km mi ricordo di essermi dimenticato il bento con inarizushi e mochi che Masako mi aveva preparato..diamine, le uniche cose dolci mi sono perso!!!

Devo tornare a Morioka, un giorno, per riprendermi quel bento!

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Un centinaio di km mi separa dalla costa.

Si trovano sempre più case tradizionali, o che ricalcano lo stile tradizionale.

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Mi aspetto di vedere lande desolate e disfatte dallo tsunami, ed invece trovo un gran lavorìo di mezzi e persone, impianti di movimento terra giganteschi, barriere altissime a futura protezione da tsunami successivi.

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Lungo la strada, un saliscendi continuo, si trovano cartelli che segnalano l’inizio e la fine della zona di allagamento dello tsunami.

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Nelle zone più alte si trovano spesso templi buddisti o shintoisti, delle vere chicche.

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Mentre in pianura, ogni volta che riscendo, qualche edificio dilaniato è lì che mi ricorda ciò che successe 3 anni fa.

Sono edifici che saltano fuori dal nulla, in mezzo al verde selvaggio che si riprende ciò che era suo un tempo.

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Lavori ovunque, un dispiegamento di bulldozer, escavatori, camion e uomini mai visto in vita mia.

E tanta, immensa determinazione.

I giapponesi sono un grande popolo.

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Strade chiuse, troppo vicine alla costa, sono state rivoltate e risucchiate dalla dirompente forza dell’onda anomala.

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E di nuovo case intonse nelle alture.

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Colline spogliate dalla flora, per ricavare terra per terrapieni, materiale prezioso adesso.

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Ancora strade interrotte, ponti crollati, grovigli di metallo che testimoniano la violenza estrema del mare.

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Già, il mare, che adesso appare così calmo.

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Faccio altri km, e noto le prime case temporanee, ovviamente in luoghi riparati e molto al di sopra del livello del mare.

Penso ai terremoti che hanno colpito anche l’Italia.

Ma il paragone è impossibile.

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E’ sera oramai, sono vicino a Minamisoma, dopo aver allungato la strada di 50km per osservare meglio il disagio vissuto tre anni fa.

Il cielo è ancora capace di regalare qualcosa, dopo una giornata grigia, quasi ad evocare tristezza.

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Sono ospite del tempio Ganokuji, da Hoshimi san, parente del bonzu di Hokkaido.

Il tempio è molto più antico, mi dice che ha 1200 anni, è impressionante però come sia ben mantenuto all’esterno, mentre all’interno è stato visibilmente rinnovato.

Mi aspetta di nuovo tatami e futon per la notte, bell’ambiente!

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La tecnica costruttiva ricalca quella antica, la porta di accesso è recente ma ugualmente incredibilmente complessa ed interessante.

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